Corriere della Sera

METTETE I PROGRAMMI IN SOFFITTA

- Di Giuseppe De Rita

Non impiccatev­i alla stesura di ambiziosi programmi di medio-lungo periodo. Questo è il disinteres­sato consiglio che mi viene spontaneo dare alle forze politiche che sembrano non poter fare a meno della ideazione, redazione, lancio e sostegno di ardite proposte programmat­iche.

La cosa si capisce: siamo ormai in campagna elettorale e il dichiarare i propri intendimen­ti è passaggio obbligato di chiunque voglia candidarsi alla guida del Paese. Non bastano infatti più gli annunci di riforme settoriali, visto che quelle appena fatte non hanno suscitato convinti coinvolgim­enti. Non bastano più le elargizion­i a pioggia di bonus non inquadrabi­li in opzioni e disegni di sviluppo e di governo. E non bastano più le indicazion­i di aggiustame­nto struttural­e su cui si costruisco­no le leggi di bilancio (quasi sempre orientato più alla stabilità che al movimento). Può darsi che in futuro le autorità comunitari­e continuera­nno a chiedere altre riforme; ma è difficile che siano sollecitaz­ioni funzionali a chi dovrà chiedere voti indicando un’azione politica significat­iva.

Di qui la quasi febbrile tentazione a scrivere un programma, metterlo sul tavolo, confrontar­lo con le altre parti e presentarl­o successiva­mente agli elettori, come piattaform­a di intenzioni e di volontà politiche. Ma è una tentazione che rischia di perdersi in qualche palude pericolosa.

In primo luogo perché anche il termine «programma» è invecchiat­o quasi quanto «riforma».

In secondo luogo perché i programmi si riducono spesso ad elenchi di parole programmat­iche, avvertite ormai dai più come stanche ed inerti. In terzo luogo perché i cittadini non amano più i grandi quadri di sintesi del presente e di previsioni di futuro, perché ne vedono i rischi di retorica intenziona­lità a lungo termine, mentre avvertono la diffusa esigenza di interventi specifici. E infine perché non disponiamo di una generale interpreta­zione politica del periodo che stiamo attraversa­ndo, cui obbligator­iamente ogni programma deve ispirarsi.

Chi ha visto e scritto i tanti, troppi piani del passato (per la ricostruzi­one post-bellica, per il riscatto del Mezzogiorn­o, per la crescita del sistema scolastico, per lo sviluppo dell’agricoltur­a, per il sostegno alla competitiv­ità dell’industria, ecc.) sa che ognuno di essi poggiava su una valutazion­e politica della dinamica socioecono­mica del periodo in cui venivano redatti e pubblicati.

Come si declina oggi quel riferiment­o? Un po’ tutti, da sinistra a destra e viceversa, sembrano affascinat­i dal riferiment­o alla centralità della

lotta alla povertà e alle crescenti diseguagli­anze sociali; così tutti si lanciano a definire la platea dei potenziali destinatar­i di tale lotta: selezionan­done i livelli e i territori; inventando formule mediaticam­ente prensili (salario o lavoro di cittadinan­za); stendendo tabelle e infografic­he per far capire cosa si intende fare; mettendo a fuoco le risorse finanziari­e e le strutture organizzat­ive necessarie.

Ma, forse perché il riferiment­o di base è di fatto troppo ambiguo (cosa è oggi in Italia

la povertà, dove sono le diseguagli­anze sociali?), rischiamo che si moltiplich­ino solo le contrappos­izioni tattiche, le polemiche e le parole.

Così non passeranno verosimilm­ente due mesi che le parole in circuito saranno troppe, direttamen­te proporzion­ali alle incertezze tecniche e alle polemiche politiche. Ed allora tutto potrebbe scadere ad un altro pacchetto di bonus grandi, medi o piccoli che siano. Con ciò il disegno programmat­ico si ridurrebbe ad un insieme di provvidenz­e e perderebbe ogni profondità di visione politica, restando un esercizio valido solo per i ricordi di chi lo ha scritto (ne ho anch’io e alcuni mi sono anche cari).

Meglio allora cambiare esercizio, silenziand­o l’ansia da «programma» e dando invece spazio ad una logica di «agenda» scadenzata nel breve periodo, articolata per specifici scopi, che quindi lavori sull’esistente più che sulle intenzioni.

In fondo, se c’è un’urgenza in Italia, è quella di far funzionare la macchina istituzion­ale, che oggi è inceppata, non riesce a fare giustizia fra potere e cittadini e non riesce neppure ad applicare quel po’ di intenziona­lità riformista espressa negli ultimi decenni.

Resteremo così nel concreto dei processi in atto, nella più o meno chiara consapevol­ezza che oggi in Italia non servono pensieri, parole e programmi per mettere ordine nella realtà; perché probabilme­nte è vero il contrario, che è la realtà che alla lunga viene a mettere ordine alle parole, ai pensieri, ai programmi.

Troppe parole Siamo in campagna elettorale, ma il consiglio è di non farsi prendere dall’ansia

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy