Globalizzazione, quanto ci costa
La globalizzazione crea vincitori e vinti in Europa e in Usa: la crescita dell’ineguaglianza spinge verso i partiti con politiche protezionistiche.
La globalizzazione ha fatto vincitori e vinti. Ovunque. E in Europa come negli Stati Uniti la crescita dell’ineguaglianza sociale ha riempito e sta riempiendo le urne di voti che premiano i partiti e le politiche protezioniste. Un fenomeno che ora si manifesta con forza, ma che comincia a formarsi a partire dagli anni Novanta e che mette in correlazione economia e politica, incapaci entrambe di proporre soluzioni adeguate.
Una semplificazione? Affatto. Come hanno cercato di spiegare economisti e politologi nell’incontro organizzato dall’Università Bocconi, in collaborazione con il Corriere della Sera, su «La Globalizzazione a un punto di svolta? Le sfide per l’Europa», a cui hanno partecipato il premio Nobel Michael Spence, Richard Baldwin del Centre for Economic Policy Research, Servaas Deroose della Commissione Ue, Francesco Giavazzi della Bocconi e Daniel Gros del Ceps. I lavori sono stati aperti con i saluti del rettore Gianmario Verona e del direttore del Corriere Luciano Fontana. La discussione del panel è stata preceduta da una sessione moderata da Guido Tabellini in cui sono stati presentati i risultati di alcuni studi. Punto di partenza il lavoro di Italo Colantone e Piero Stanig della Bocconi — The trade origins of economic nationalism: import competition and voting behavior in Western Europe — che ha messo in correlazione il successo dei partiti nazionalisti e protezionisti europei con lo choc subito da numerose aree del Vecchio Continente a causa
delle crescita delle importazioni cinesi. L’analisi ha preso in considerazione il periodo 19882007, ma quanto è emerso è emblematico di un fenomeno che negli anni si è accentuato. A votare per i partiti nazionalisti e a invocare un maggiore protezionismo, spiegano i due docenti della Bocconi, sono soprattutto le aree in cui prima dell’ingresso della Cina nel
Wto, il settore manifatturiero era molto forte. La concorrenza globale e il libero mercato hanno accentuato il divario tra «vincitori e vinti», con questi ultimi che trovano nel protezionismo e nel nazionalismo le risposte ai propri timori e alla domanda insoddisfatta di ricompensazione e ridistribuzione.
Non bisogna però fare l’errore di individuare nella Cina la causa di tutti i mali e della perdita della maggior parte dei posti di lavoro in alcuni settori. Perché come ha evidenziato Swati Dhingra, assistant professor of Economics alla London School, «meno del 20% dei posti di lavoro persi sono dovuti alla Cina», il resto è da imputare ai cambiamenti tecnologici. Si inserisce in questo tessuto sociale l’emergenza immigrazione che sta travolgendo l’Europa e sta mettendo in crisi l’Unione Europea, favorendo la crescita dei partiti della destra nazionalista, come ha evidenziato Christian Dustmann, professore di Economia allo University College London, in uno studio dedicato alla relazione tra l’insediamento dei rifugiati in Danimarca e la crescita dei partiti anti immigrati ed euroscettici. A complicare le analisi dei fenomeni, ha sottolineato Gianmarco Ottaviano della London School of Economics, ci sono gli aspetti culturali e irrazionali di cui comunque bisogna tenere conto. E soprattutto, osserva Baldwin, tener presente che alla radice del populismo c’è «l’idea che il popolo è puro mentre le élite sono corrotte».
Certo la soluzione non è la fine del libero commercio. Siamo in un circolo vizioso, come evidenzia Giavazzi, perché limitare gli scambi vuol dire ridurre la produttività, fondamentale per la crescita. L’inquietudine, spiega, è la combinazione tra choc esterni e il desiderio di proteggere solo alcuni. E quando i diversi fattori si allineano nella «tempesta perfetta» — osserva Spence — il risultato è l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.