LEZIONI POCO CAPITE
L’economia britannica tiene ma scricchiola
Lo dicono i dati: i temuti effetti negativi della Brexit sull’economia britannica per ora non si sono visti. Anche così, però, è utile che i Paesi europei capiscano bene le lezioni in arrivo da Londra.
A nove mesi dal referendum che ha visto prevalere il Leave per ora Oltremanica le drammatiche conseguenze previste dalla Bank of England e dalla maggioranza degli osservatori non si sono (ancora) viste. Nel quarto trimestre 2016 il Pil del Regno Unito è cresciuto del 2 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Un dato in leggero miglioramento rispetto alla prima metà dell’anno. Per inciso, quella registrata a Londra è la più rapida crescita annua tra tutti i Paesi del G7. E anche la disoccupazione rimane inferiore al 4,8 per cento, il dato più basso dal 1976.
L’unica previsione verificata finora riguarda la sterlina che ha perso il 15 per cento, scendendo subito a 1,25 contro il dollaro e oscillando intorno a questo valore da allora. Quella britannica non è certo una valuta in caduta libera. Il suo deprezzamento ha anzi finora sostenuto la competitività dell’export inglese e ha anche contribuito al buon andamento dei bilanci delle multinazionali britanniche. Con una sterlina deprezzata, i profitti incassati (in valute forti) in giro per il mondo si traducono in numeri più grandi nei quartier generali della City. Anche i prezzi immobiliari, dopo un’iniziale flessione estiva, hanno ripreso a crescere e oggi superano i livelli raggiunti nel giugno 2016 che rappresentavano il massimo di sempre. Con queste premesse, la Borsa di Londra ha brindato, con il FTSE 100 che — altro record — ha passato quota 7.300 in gennaio, con un +16, in sterline, rispetto a giugno.
Certo, è presto per cantar vittoria, anche perché qualche scricchiolio si vede. In effetti la Brexit comincerà solo quando (forse già oggi) Theresa May invocherà l’articolo 50 del Trattato di Lisbona sulle procedure per l’uscita volontaria e unilaterale di un Paese. E solo a maggio si capirà meglio se l’uscita sarà hard o soft, quando il governo approverà il Repeal Act, la legge per decidere se cancellare o mantenere nell’ordinamento inglese le singole leggi Ue introdotte dallo European Communities Act del 1972. Intanto, sui media si legge di banche di investimento e multinazionali che, temendo difficoltà di accesso al mercato unico europeo, spostano una parte non irrilevante dei propri dipendenti e delle proprie funzioni da Londra a Parigi, Francoforte, Barcellona e (chissà) anche Milano. Qualche solido dato negativo arriva anche dai consumi dato che le vendite al dettaglio sono in calo da tre mesi. Specialmente Natale è andato maluccio e anche a gennaio le famiglie britanniche non hanno approfittato dei saldi per spendere di più. Le cause? Salari e produttività stagnanti, ma anche il ritorno dell’inflazione che, con il deprezzamento della sterlina, è salita all’1,8 per cento (un +1,2 rispetto a nove mesi fa).
A garantire la tenuta dell’economia non sarà la ritrovata sovranità (che già c’era) ma l’impegno del governo a mantenere un ambiente favorevole alla crescita, agli investimenti e alla localizzazione delle multinazionali.
Se la Brexit scardinasse disgraziatamente ciò che i predecessori della signora May a Downing Street (prima di tutto, Margaret Thatcher e Tony Blair) hanno realizzato in passato, tornerebbero di attualità le previsioni disastrose per ora archiviate con sollievo.
Le previsioni Solo a maggio si capirà meglio se l’uscita dall’Ue sarà hard o soft