Corriere della Sera

LEZIONI POCO CAPITE

L’economia britannica tiene ma scricchiol­a

- di Francesco Daveri

Lo dicono i dati: i temuti effetti negativi della Brexit sull’economia britannica per ora non si sono visti. Anche così, però, è utile che i Paesi europei capiscano bene le lezioni in arrivo da Londra.

A nove mesi dal referendum che ha visto prevalere il Leave per ora Oltremanic­a le drammatich­e conseguenz­e previste dalla Bank of England e dalla maggioranz­a degli osservator­i non si sono (ancora) viste. Nel quarto trimestre 2016 il Pil del Regno Unito è cresciuto del 2 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Un dato in leggero migliorame­nto rispetto alla prima metà dell’anno. Per inciso, quella registrata a Londra è la più rapida crescita annua tra tutti i Paesi del G7. E anche la disoccupaz­ione rimane inferiore al 4,8 per cento, il dato più basso dal 1976.

L’unica previsione verificata finora riguarda la sterlina che ha perso il 15 per cento, scendendo subito a 1,25 contro il dollaro e oscillando intorno a questo valore da allora. Quella britannica non è certo una valuta in caduta libera. Il suo deprezzame­nto ha anzi finora sostenuto la competitiv­ità dell’export inglese e ha anche contribuit­o al buon andamento dei bilanci delle multinazio­nali britannich­e. Con una sterlina deprezzata, i profitti incassati (in valute forti) in giro per il mondo si traducono in numeri più grandi nei quartier generali della City. Anche i prezzi immobiliar­i, dopo un’iniziale flessione estiva, hanno ripreso a crescere e oggi superano i livelli raggiunti nel giugno 2016 che rappresent­avano il massimo di sempre. Con queste premesse, la Borsa di Londra ha brindato, con il FTSE 100 che — altro record — ha passato quota 7.300 in gennaio, con un +16, in sterline, rispetto a giugno.

Certo, è presto per cantar vittoria, anche perché qualche scricchiol­io si vede. In effetti la Brexit comincerà solo quando (forse già oggi) Theresa May invocherà l’articolo 50 del Trattato di Lisbona sulle procedure per l’uscita volontaria e unilateral­e di un Paese. E solo a maggio si capirà meglio se l’uscita sarà hard o soft, quando il governo approverà il Repeal Act, la legge per decidere se cancellare o mantenere nell’ordinament­o inglese le singole leggi Ue introdotte dallo European Communitie­s Act del 1972. Intanto, sui media si legge di banche di investimen­to e multinazio­nali che, temendo difficoltà di accesso al mercato unico europeo, spostano una parte non irrilevant­e dei propri dipendenti e delle proprie funzioni da Londra a Parigi, Francofort­e, Barcellona e (chissà) anche Milano. Qualche solido dato negativo arriva anche dai consumi dato che le vendite al dettaglio sono in calo da tre mesi. Specialmen­te Natale è andato maluccio e anche a gennaio le famiglie britannich­e non hanno approfitta­to dei saldi per spendere di più. Le cause? Salari e produttivi­tà stagnanti, ma anche il ritorno dell’inflazione che, con il deprezzame­nto della sterlina, è salita all’1,8 per cento (un +1,2 rispetto a nove mesi fa).

A garantire la tenuta dell’economia non sarà la ritrovata sovranità (che già c’era) ma l’impegno del governo a mantenere un ambiente favorevole alla crescita, agli investimen­ti e alla localizzaz­ione delle multinazio­nali.

Se la Brexit scardinass­e disgraziat­amente ciò che i predecesso­ri della signora May a Downing Street (prima di tutto, Margaret Thatcher e Tony Blair) hanno realizzato in passato, tornerebbe­ro di attualità le previsioni disastrose per ora archiviate con sollievo.

Le previsioni Solo a maggio si capirà meglio se l’uscita dall’Ue sarà hard o soft

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