Euroscettici o euroentusiasti Se Strasburgo boccia l’Italia
Scherzando, ma nemmeno troppo, si potrebbe dire che anni di «euroentusiasti» del diritto stanno cedendo a giorni di «euroscettici» del diritto. Prima i mal di pancia italiani sulla lettura di Strasburgo (nella «sentenza Contrada») del concorso esterno in associazione mafiosa; poi l’argine della Corte costituzionale alla possibilità, sdoganata dalla «sentenza Taricco» della Corte Ue del Lussemburgo, di retroattivamente peggiorare per l’imputato le regole sulla prescrizione; e da ultimo ieri ecco il dribbling del Tribunale di Milano per schivare le conseguenze della «sentenza de Tommaso», con la quale lo scorso 23 febbraio la Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo ha bocciato la disciplina italiana delle misure di prevenzione personali fondata sulla «pericolosità sociale generica». Un k.o. europeo che, se esteso alle misure patrimoniali, assesterebbe un colpo mortale allo strumento italiano più utilizzato per confiscare (senza una condanna penale) patrimoni ai clan. Strasburgo riteneva troppo vaghi gli elementi fattuali e le specifiche tipologie di condotta da considerare espressive di «pericolosità sociale» dell’individuo? «A parere del Tribunale — alza invece i ponti levatoi il giudice milanese Giuseppe Cernuto con i colleghi Ilario Pontani e Laura Benincasa — la decisione della Grande Camera non integra allo stato un precedente consolidato nei termini descritti dalla Corte costituzionale nella sentenza 49 del 2015». Perché no? Per «la novità della questione», per i precedenti favorevoli di Strasburgo, per la peculiarità del caso de Tommaso (vittima di omonimia negli indici di «pericolosità» segnalati dalla polizia), e perché «5 giudici» di Strasburgo (tra cui il presidente Guido Raimondi) hanno espresso «opinioni dissenzienti». Strasburgo lamentava poi troppo indeterminate le prescrizioni (impartite alle persone colpite da misure di prevenzione) di «vivere onestamente e rispettare le leggi», e di «non partecipare a pubbliche riunioni». Il Tribunale milanese difende la prima, perché dalla sua violazione discende uno specifico delitto che la punisce con la reclusione. Sulla seconda, invece, concede che il veto debba investire solo le «riunioni in luogo pubblico» per cui «va dato preavviso alle Autorità che possono vietarle», e non invece anche le pacifiche «riunioni in luogo aperto al pubblico, senza armi».