Una voce d’oggi, il riscatto di Cassola
Opere popolate da personaggi miti, mai appariscenti, sempre dignitosi E donne che sanno accogliere con semplicità gli eventi della vita
Il destino degli autori a lungo ritenuti inattuali o persino anacronistici spesso è quello di ricomparire intatti al futuro anteriore e di essere, paradossalmente, coetanei dei figli di quanti li avevano a suo tempo rifiutati. Nonostante un consenso di pubblico che fra gli anni Cinquanta e Sessanta fu largo e generoso di riconoscimenti, Carlo Cassola venne bollato dal Gruppo 63 come una rediviva «Liala» e dunque venne liquidato come uno scrittore incapace tanto di mettere in pagina le trasformazioni della società italiana, nel trapasso fra la ricostruzione e il boom economico, quanto di recepire i risultati di quelle che allora si chiamavano le nuove scienze umane, vale a dire la psicoanalisi, l’antropologia e lo strutturalismo.
C’è di più: nel secolo della contestazione di tutte le forme convenute, Carlo Cassola sembrava ignorare fosse mai esistita l’Avanguardia e perciò la semplice idea che per legittimarsi la letteratura, come peraltro ogni opera d’arte, dovesse rigettare l’eredità della tradizione e proporsi come un segno deragliante e iconoclasta, obbedendo al credo dell’assolutamente moderno. Colui che aveva scritto nei suoi anni buoni romanzi e racconti così seriali, nel tono monocromo e nella atmosfera malinconica, da apparire repliche di una ossessione espressiva (fra gli altri Il taglio del bosco, 1950; I vecchi compagni, 1953; Un cuore arido, 1961), era infatti un provinciale educatosi al dettato scabro di Flaubert e del Joyce dei Dublinesi, era un mite professore di liceo, un socialista ed ex partigiano, la cui poetica, che chiamava del «subliminare», si era fissata una volta per sempre nei racconti giovanili de La visita (1942), estranei alla prosa d’arte allora in voga e invece dedotti dalla immagine primordiale che giurava di avere rubato al finestrino di un treno in corsa, cioè un gruppo di ciclisti fermi a un passaggio a livello. Come se lì, scrutando il fermo-immagine, si fosse chiesto una volta per sempre: chi sono quegli individui silenziosi e anonimi, qual è la sostanza e il decorso della loro vita?
Cassola sarà sempre fedele a questa domanda, come fosse l’imperativo categorico della propria narrativa, anche quando sceglierà con La ragazza di Bube (1960) un tema di urgenza immediata e quasi à la page, narrando gli strascichi della guerra civile in un romanzo che, se da un lato gli darà un successo clamoroso, dall’altro non finirà mai di convincerlo, come fosse una facile concessione allo spirito del tempo. Perché Cassola resta un fenomenologo, un analista della vita che pulsa mutamente all’interno di individui miti, anonimi, mai appariscenti, uomini e donne che portano i nomi più comuni (Fausto e Anna, nomi elettivi, sono si potrebbe dire dei nomi universali), che vivono o provano a farlo al ritmo di esistenze le cui uniche occasioni consistono nella amicizia, nell’innamoramento, in gesti di fedeltà all’esistenza ordinaria che può essere onorata o tradita.
Scrisse, di lui, Cesare Garboli: «Cassola cerca di eliminare dalla figura del narratore tutti quei tratti che avvicinano il romanziere di tradizione allo stile del drammaturgo. (…) Racconta il non-essere: la misteriosa percezione negativa del vivere nella sua durata insieme limitata e infinita, nel suo trascorrere». Non succede in effetti mai niente nella narrativa di Cassola, un artista negato alla costruzione del plot e ai ricatti demagogici della «bella storia», ma tutto vi accade nel sentire ammutolito di personaggi che vivono soltanto di trasalimenti e di minimi impercettibili smottamenti del loro essere al mondo.
Per lo più sono donne, a partire dalla fatale Anna che abita Un cuore arido, il suo riconosciuto capolavoro, donne da Cassola catturate nella spoglia e severa dignità che ogni volta le associa al paesaggio nativo, la campagna di Grosseto, i vicoli di Volterra, le spiagge deserte e ventose di Marina di Cecina. E donne che, come tali, fino in fondo aderiscono a uno stile la cui musa inderogabile, ha scritto Alba Andreini sua maggiore studiosa, è nient’altro che la semplicità. La quale ovviamente non è un dato di partenza, ma il punto di arrivo e in- sieme la massima posta di una implacabile e non meno amorevole osservazione degli esseri umani, mentre costoro si espongono alla vita, alle sue ordinarie occasioni, ai suoi poveri beni e alle ineluttabili ferite.
La pagina di Cassola metabolizza tutto questo e non intende altro, anzi lo rigetta perché lo ritiene inessenziale. Fra gli scrittori e i critici che (negli «Oscar» Mondadori curati da Alba Andreini e coordinati da Elisabetta Risari) ora ripropongono a cadenza le opere del narratore toscano, è capitato tempo fa a Massimo Onofri di rivolgere ai lettori la seguente domanda: fra coloro che ad esempio si appassionano ai racconti celebrati di Alice Munro, a storie urticanti ma fatte apparentemente di nulla, a minime abissali vicende della vita che è di tutti, quanti hanno mai letto Carlo Cassola? Non si trattava solamente di una interrogativa retorica.