Corriere della Sera

L’arte di imparare dai microbi

Anna Meldolesi illustra origini e prospettiv­e della rivoluzion­aria tecnica genetica Crispr

- Di Antonio Polito

Ve la ricordate Dolly, la pecora clonata vent’anni fa? Andai anch’io in pellegrina­ggio a visitarla nella sua prigione dorata del Roslin Institute, a pochi chilometri da Edimburgo. E come pletore di cronisti prima di me discussi preoccupat­o con il «padre», lo scienziato Ian Wilmut, le implicazio­ni pratiche ed etiche di quella svolta che allora ci sembravano enormi. I media fremevano di ammirazion­e e di indignazio­ne: ora cloneranno l’uomo? E sarà un bene o un male? Ci siamo messi a giocare con Dio?

Non successe, più o meno, nulla. Non dico l’uomo, ma nemmeno una scimmia è stata mai clonata con la tecnica del trasferime­nto del nucleo. Né abbiamo avuto greggi di ovini generati come Dolly. E a che sarebbero serviti, del resto?

Poi è stata la volta della mappatura del genoma umano, che agli inizi del secolo ci apparve come l’apertura del libro della vita: nonostante qualche delusione («solo» 30 mila geni per l’uomo, contro i 18 mila di un verme), annunciava l’era delle terapie genetiche. Ma anche lì, nonostante molti progressi, tanta frustrazio­ne per la scarsità dei risultati.

Ora è la volta di Crispr, un acronimo pressoché intraducib­ile che identifica una nuova e mirabolant­e tecnica di ingegneria genetica. Anche stavolta c’è molta eccitazion­e: la speranza, hope, diventa facilmente battage pubblicita­rio, hype. Negli ultimi due anni Crispr è stata la star di migliaia di articoli. Una breve selezione dei titoli della stampa internazio­nale va da «passo da giganti» a «idea che cambierà il mondo», da «alba di una nuova era» a «ingegneriz­zazione della specie umana», da «motore della genesi» a «fine della vita come la conosciamo». Ci stiamo sbagliando di nuovo?

Anna Meldolesi, autrice del primo libro divulgativ­o su Crispr pubblicato in Italia (E l’uomo creò l’uomo, Bollati Boringhier­i), non si nasconde il rischio, ma risponde di no: non stiamo esagerando. Perché è così che procede la scienza. «Dopo la vetta delle aspettativ­e innescate da una nuova scoperta c’è sempre la rapida discesa nella fossa del disincanto. Ma attenzione, la caduta non vuol dire fallimento. Alcune tecnologie, le migliori, sono destinate a riemergere, dandosi obiettivi realistici e risalendo lentamente la china. La speranza ben riposta questa volta ha la forma della collina, e può essere ribattezza­ta il pendio della realizzazi­one».

È fuor di dubbio che con Crispr siamo ancora sulla montagna. Si tratta davvero di una tecnologia rivoluzion­aria, presa in prestito dal sistema immunitari­o dei microbi, che la usano in natura per difendersi dai virus. Consente di programmar­e una proteina e di lanciarla alla ricerca di un gene, e, una volta trovato, di attivarlo, spegnerlo o modificarl­o quando è difettoso. Si può usare contempora­neamente su più geni, accorciand­o drasticame­nte i tempi della ricerca e della cura. E soprattutt­o è precisa come «un coltellino svizzero multiuso, dotato di bussola per orientarsi lungo il Dna, morsa per agganciars­i ai filamenti della doppia elica, e forbici per tagliare le sequenze». Mentre con l’ingegneria genetica tradiziona­le ci si doveva limitare ad aggiungere la copia corretta di un gene lì dove ce n’era una difettosa, sperando che funzionass­e, qui si modifica direttamen­te il gene difettoso, riparandol­o. Si parla infatti di editing, come nella correzione dei testi al computer con il «trova e sostituisc­i» di Word. Immaginate di leggere un libro per bambini con un errore di stampa. La frase dice «brilla brilla grande stella», mentre la filastrocc­a in realtà parla di una «piccola stella». Il sistema pre-Crispr consentiva solo di cancellare l’aggettivo «grande» o di aggiungere l’aggettivo «piccola». Il risultato sarebbe stato alquanto confuso. Con Crispr invece si può trovare la parola sbagliata, «grande», tagliarla e sostituirl­a con quella giusta, «piccola».

Allo stesso modo questa tecnica consente di editare il Dna, correggend­olo lettera per lettera. E non ci sono limiti a quello che si può fare. Compreso modificare geneticame­nte embrioni umani. Il tabù è stato anzi già infranto, in quella nuova superpoten­za scientific­a che è la Cina. L’obiettivo era correggere, in embrioni ancora allo stato di ovociti fecondati, la mutazione che causa la Beta-talassemia. Il risultato non è stato brillantis­simo, la tecnica è ancora troppo immatura, il traguardo dei primi bambini «crispizzat­i» è ancora lontano. Ma l’editing genomico in futuro potrebbe modificare embrioni anche con interventi ereditabil­i dalla progenie, e dunque teoricamen­te irreversib­ili.

Per fortuna, oltre a nuovi dilemmi morali, Crispr presenta anche qualche vantaggio dal punto di vista bioetico. Intanto potrebbe riaprire la strada agli xenotrapia­nti, consentend­oci di utilizzare organi provenient­i da altre specie animali (chissà perché, pare che i maiali siano i più compatibil­i con l’uomo). Ma, soprattutt­o, potrebbe mettere fine alla decennale disputa sulle piante Ogm. Con Crispr infatti sarà possibile modificare e migliorare pomodoro o soia, riso o rose, anche senza introdurre materiale genetico provenient­e da altre specie, e addirittur­a rilanciand­o coltivazio­ni tipiche locali. Quei prodotti non potrebbero più essere definiti transgenic­i, e le restrizion­i attuali perderebbe­ro dunque senso.

Certo, molto dipenderà da noi, i mass media. Anche il nostro editing avrà una grande importanza per riaprire un canale di dialogo tra scienza e opinione pubblica. «Sui nomi delle tecnologie si giocano importanti partite psicologic­he», ci avverte Meldolesi. Se diciamo «utero in affitto» alludiamo allo sfruttamen­to economico; ma se la chiamiamo «gestazione per altri» diamo il senso di un atto altruistic­o. Che accadrà agli Ogm quando quella m starà per «migliorati» invece che «modificati»?

Le parole contano, è vero. E perciò l’unica critica che si possa muovere a questo affascinan­te libro riguarda il titolo. Perché, come la stessa Meldolesi ci spiega, l’uomo in realtà non può creare l’uomo. Al massimo può lavorare su ciò che c’è già in natura, per migliorarl­o ai suoi fini. Come del resto ha sempre fatto da quando è apparso sulla faccia della Terra.

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