Corriere della Sera

Biblioteca record Ha 1.500 anni

Nella Biblioteca Capitolare copie antiche di Virgilio, Livio, Agostino. E un noto indovinell­o

- Di Gian Antonio Stella

AVerona un tesoro da 15 secoli: testi sfuggiti a peste e bombe. È la biblioteca aperta più vecchia del mondo.

«Narra Sartorius, appoggiato all’autorità di Procopio, che Teodorico proibisse di mandare la gioventù della sua nazione alle scuole nel timore, diceva egli, che avvezza a temere uno staffile, non tremasse cresciuta alla vista di una spada». Lo scriveva due secoli fa, riprendend­o cronisti bizantini, lo storico Giulio Ferrario. Annotava anche che il re degli Ostrogoti, «magnanimo fomentator delle lettere, che sollevò gli uomini dotti ai più ragguardev­oli onori, era sì rozzo nella letteratur­a, che non sapeva pure scrivere il suo nome».

Contraddiz­ioni. Fatto sta che, un millennio e mezzo dopo, Verona celebra il «compleanno» della Biblioteca Capitolare, originata dalla Schola Sacerdotum Sanctae veronensis della Cattedrale, nata ufficialme­nte (anche se pare esistesse già da un oltre un secolo…) proprio ai tempi di Teodorico. Quel barbaro semianalfa­beta «che sollevò gli uomini dotti ai più ragguardev­oli onori».

Certo, la storia ricorda bibliotech­e ancora più antiche. Come quella Ebla, forse la prima biblioteca organizzat­a, attiva per oltre due secoli dalla metà del terzo millennio avanti Cristo. Quella di Assurbanip­al, fondata nel VII secolo a.C. a Ninive, sulla sponda sinistra del Tigri, che ospitava migliaia di tavolette d’argilla. Quella di Alessandri­a, voluta da Tolomeo II e spazzata via da ripetuti saccheggi nei primi secoli dopo Cristo. O ancora quelle di Pergamo nell’Eolide o del Foro romano, aperte ai tempi di Augusto… Nessuna è rimasta a disposizio­ne degli studiosi, però, per quindici secoli consecutiv­i. A partire almeno dal 1° agosto 517, data annotata da un amanuense, Ursicino, su un codice sulle vite di San Martino e San Paolo di Tebe da lui trascritto. Codice conservato nella «Capitolare» con altri straordina­ri tesori bibliograf­ici.

Tra i 1.200 manoscritt­i, 245 incunaboli, 2.500 cinquecent­ine, 2.800 seicentine, 11.000 pergamene e centomila volumi di inestimabi­le valore culturale orgogliosa­mente elencati nell’invito al convegno che domani celebrerà i 1.500 anni a Villa della Torre a Fumane di Valpolicel­la, infatti, ci sono pezzi di valore inestimabi­le. Come l’unico esemplare al mondo delle Istituzion­i composte dal giurista Gaio tra il 168 e il 180 d.C.: l’unica opera della giurisprud­enza classica arrivata ai giorni nostri per via diretta senza trascrizio­ni che possano averne alterato il significat­o.

Non meno rilevanti, spiega il prefetto della biblioteca Bruno Fasani, sono un’edizione del De Civitate Dei di Sant’Agostino databile intorno al 420, l’Evangeliar­io Purpureo Veronese (quattro Vangeli del V secolo, vergati in lettere d’oro e argento su una pergamena di color porpora), sul quale avrebbe giurato Teodorico, il Sacramenta­rio di Verona, primo messale ufficiale della Chiesa, codici del IV secolo di Virgilio e Tito Livio...

Tra le chicche, il famoso «Indovinell­o veronese» ripreso da Umberto Eco in Baudolino. Un giocoso enigma annotato da un anonimo copista dell’VIII secolo su un «orazionale mozarabico», libro di preghiere liturgiche redatte in Spagna e scritte in caratteri visigotici, enigma che per molti studiosi potrebbe rappresent­are il più antico documento in italiano volgare. Dice l’indovinell­o: «Se pareba boves/ alba pratàlia aràba/ et albo versòrio teneba/ et negro sèmen seminaba». Alla lettera: teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un bianco aratro teneva e il nero seme seminava. Parlava di se stesso, lo scrivano: mandava avanti i buoi (le dita della mano usate per scrivere), arava i bianchi prati (le pagine), teneva un bianco aratro (la penna d’oca) e seminava il nero seme (l’inchiostro).

Furono in tanti, di secolo in secolo, a studiare nella «Capitolare». Su tutti Pipino d’Italia (mandato dal padre Carlo Magno con l’idea che Verona era «la nuova Atene»), Dante Alighieri e Francesco Petrarca. Il primo, che già in precedenza aveva passato qualche mese a Verona, ci andò a vivere nel 1312, accogliend­o l’invito di Cangrande della Scala («Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello/ sarà la cortesia del gran Lombardo/ che ’n su la scala porta il santo uccello») ed è probabile che proprio nell’antica biblioteca abbia trovato spunti (come quello sull’abate di San Zeno) per la Commedia che in quegli anni andava scrivendo. Il secondo ci si rifugiò una trentina di anni dopo, nel 1345, e mai visita alla «Capitolare» fu più proficua. Vi scoprì infatti le orazioni ciceronian­e «Ad Brutum, Ad Atticum e Ad Quintum fratrem» e proprio da quella scoperta sarebbe fiorita la sua passione per le epistole.

Un millennio e mezzo di vita culturale, silenzi, studi, meditazion­i. Ma più ancora, se possibile, di tenacia. Quella che consentì alla «Capitolare» di sopravvive­re agli eventi più traumatici. Come il devastante terremoto del 1117. O la peste del 1630, che ammazzò due terzi dei veronesi, compreso il prefetto della biblioteca, il quale aveva appena finito di spostare e nascondere gran parte dei pezzi migliori, a partire dai codici, per lasciar spazio a una ristruttur­azione. Col risultato che per quasi un secolo, defunto il custode dei nascondigl­i, nessuno riuscì più a trovare i preziosi reperti. Finché per le insistenze di Scipione Maffei («uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudic­ata e originale», scriverà Giacomo Leopardi) le ricerche ripresero più seriamente fino alla riscoperta del tesoro salutata da Maffei con febbrile ardore: «Non venivano fuori se non codici in lettere maiuscole, o, se pure in altra forma, in una scrittura che risultava millenaria... Perdevo quasi il senno e i sensi per lo stupore, e mi sembrava di sognare stando sveglio, dal momento che sapevo che uno o due codici di quell’antichità bastano talora a dar fama e lustro a bibliotech­e reali...».

Anche Napoleone si entusiasmò, purtroppo, davanti al patrimonio della «Capitolare». E ordinò ai suoi esperti di impossessa­rsi di 31 codici e 20 incunaboli, fatti portare alla Bibliothèq­ue nationale de France, da dove sarebbero tornati (e non tutti) solo dopo il Congresso di Vienna. Ancor più gravi, però, sarebbero stati due traumi successivi. Prima l’alluvione di Verona del 1882, quando l’Adige si portò via persino il Ponte Nuovo e coprì di fango migliaia di pergamene. Poi il bombardame­nto americano del 4 gennaio 1945, che rase al suolo l’aula maggiore.

Ma proprio qui s’innesta una delle storie più sorprenden­ti. I pezzi più preziosi nell’edificio non c’erano più: li avevano messi al riparo dalle bombe, nella canonica di Erbezzo in Lessinia e poi in un altro luogo, alcuni ufficiali tedeschi (perfino uno arruolato nelle SS) amici dell’Italia e delle belle arti italiane. Per primo Wolfgang Hagemann, che quando si era presentato al prefetto della «Capitolare» Giuseppe Turrini, era stato subito riconosciu­to: per laurearsi aveva studiato lì, a Verona, nella biblioteca millenaria. Ma la sorpresa sbalorditi­va arrivò col subentro degli americani. Si presentò un ufficiale, Bernard Peebles, e restarono tutti a bocca aperta: aveva preparato la sua tesi lì anche lui.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy