La «giustizia secondo me» dei senatori sul caso Minzolini
Una sorta di «giustizia secondo me» è la logica che si sente pulsare sotto molte delle giustificazioni addotte in Senato per votare contro la decadenza da parlamentare di Augusto Minzolini, conseguenza della sua condanna definitiva a 2 anni e mezzo per peculato alla direzione del Tg1. C’è chi dice di aver ricavato il sentore di «persecuzione» politica del senatore azzurro dalla presenza (nella terna che lo giudicò in Appello) di un giudice rientrato in magistratura dopo essere stato nel Partito popolare italiano e sottosegretario nel governo Prodi. Ma ragionare di «fumus persecutionis» ha senso all’inizio di una inchiesta nella quale venga eventualmente chiesta la custodia cautelare per un eletto dal popolo, non quando c’è una sentenza definitiva al termine dei tre gradi di giudizio. E, soprattutto, già nel processo l’imputato ha facoltà di chiedere l’astensione (e la sostituzione) del giudice di cui paventi la non imparzialità, come di recente accaduto su istanza di Eni in un processo per tangenti internazionali: se il giudice non si astiene, l’imputato può chiederne la ricusazione alla Corte d’Appello (come appena fatto da un imputato di terrorismo internazionale), contro il cui diniego può ulteriormente ricorrere in Cassazione. Ma se nulla di tutto ciò fu attivato da Minzolini nel suo processo, è singolare che ora in Parlamento si riesumi un argomento nemmeno coltivato dall’interessato.
Viene poi additata come sospetta la pena in quanto fissata sopra il tetto dei 2 anni che fa scattare la legge Severino: ma le sentenze non sono bizzosi oracoli pronunciati da giudici imperscrutabili, bensì percorsi argomentativi di cui i giudici rendono obbligatorio conto nella motivazione affinché la tenuta logica sia controllata (come qui è poi stata) in Cassazione.
L’idea poi che una successiva decisione civile, più favorevole al senatore, equivalga a elidere la condanna penale ignora che differenti sono i presupposti (e quindi spesso gli esiti) dei procedimenti penali, civili, contabili e lavorativi.
Infine ci sono i senatori che rivendicano di essere «non passacarte dei magistrati» ma autonomi verificatori delle condizioni di decadenza. Giusto. Ma verificare la definitività di una sentenza e l’entità di una pena è ben diverso dal pretendere di rifare in Parlamento un processo concluso dalla Cassazione.
E gli ex «entusiasti» (5 anni fa) «pentiti» (oggi) delle tagliole della legge Severino avrebbero dovuto — anziché votare su Minzolini il contrario di quanto votato nel far decadere Galan dalla Camera o Berlusconi dal Senato — avere il coraggio di chiedere alla Giunta delle immunità di sollevare una questione di incostituzionalità, o sollecitare il Senato a intentare davanti alla Consulta un (seppur acrobatico) conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato votanti (nel 2012) e ripudianti (nel 2017) la medesima decadenza prevista dalla legge Severino. Soluzioni ardite, e pur tuttavia più lineari della «giustizia secondo me», privilegio solo di chi ha il potere istituzionale di autorealizzarla.