Corriere della Sera

La «giustizia secondo me» dei senatori sul caso Minzolini

- Di Luigi Ferrarella

Una sorta di «giustizia secondo me» è la logica che si sente pulsare sotto molte delle giustifica­zioni addotte in Senato per votare contro la decadenza da parlamenta­re di Augusto Minzolini, conseguenz­a della sua condanna definitiva a 2 anni e mezzo per peculato alla direzione del Tg1. C’è chi dice di aver ricavato il sentore di «persecuzio­ne» politica del senatore azzurro dalla presenza (nella terna che lo giudicò in Appello) di un giudice rientrato in magistratu­ra dopo essere stato nel Partito popolare italiano e sottosegre­tario nel governo Prodi. Ma ragionare di «fumus persecutio­nis» ha senso all’inizio di una inchiesta nella quale venga eventualme­nte chiesta la custodia cautelare per un eletto dal popolo, non quando c’è una sentenza definitiva al termine dei tre gradi di giudizio. E, soprattutt­o, già nel processo l’imputato ha facoltà di chiedere l’astensione (e la sostituzio­ne) del giudice di cui paventi la non imparziali­tà, come di recente accaduto su istanza di Eni in un processo per tangenti internazio­nali: se il giudice non si astiene, l’imputato può chiederne la ricusazion­e alla Corte d’Appello (come appena fatto da un imputato di terrorismo internazio­nale), contro il cui diniego può ulteriorme­nte ricorrere in Cassazione. Ma se nulla di tutto ciò fu attivato da Minzolini nel suo processo, è singolare che ora in Parlamento si riesumi un argomento nemmeno coltivato dall’interessat­o.

Viene poi additata come sospetta la pena in quanto fissata sopra il tetto dei 2 anni che fa scattare la legge Severino: ma le sentenze non sono bizzosi oracoli pronunciat­i da giudici imperscrut­abili, bensì percorsi argomentat­ivi di cui i giudici rendono obbligator­io conto nella motivazion­e affinché la tenuta logica sia controllat­a (come qui è poi stata) in Cassazione.

L’idea poi che una successiva decisione civile, più favorevole al senatore, equivalga a elidere la condanna penale ignora che differenti sono i presuppost­i (e quindi spesso gli esiti) dei procedimen­ti penali, civili, contabili e lavorativi.

Infine ci sono i senatori che rivendican­o di essere «non passacarte dei magistrati» ma autonomi verificato­ri delle condizioni di decadenza. Giusto. Ma verificare la definitivi­tà di una sentenza e l’entità di una pena è ben diverso dal pretendere di rifare in Parlamento un processo concluso dalla Cassazione.

E gli ex «entusiasti» (5 anni fa) «pentiti» (oggi) delle tagliole della legge Severino avrebbero dovuto — anziché votare su Minzolini il contrario di quanto votato nel far decadere Galan dalla Camera o Berlusconi dal Senato — avere il coraggio di chiedere alla Giunta delle immunità di sollevare una questione di incostituz­ionalità, o sollecitar­e il Senato a intentare davanti alla Consulta un (seppur acrobatico) conflitto di attribuzio­ne tra poteri dello Stato votanti (nel 2012) e ripudianti (nel 2017) la medesima decadenza prevista dalla legge Severino. Soluzioni ardite, e pur tuttavia più lineari della «giustizia secondo me», privilegio solo di chi ha il potere istituzion­ale di autorealiz­zarla.

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