Trump torna al carbone (e alle emissioni) «Così i minatori ritroveranno il lavoro»
Smantellata la legge Obama sull’ambiente. A rischio l’accordo di Parigi. L’offensiva degli ecologisti
Secondo una ricerca dello «Yale Program on Climate Change», i due terzi degli americani, esattamente il 69%, pensano sia necessario imporre dei limiti stringenti alle emissioni di anidride carbonica. Il presidente degli Stati Uniti, però, fa parte dell’altro terzo.
Ieri Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per smantellare il «Clean Power Plan» di Barack Obama: via le restrizioni alle centrali termoelettriche o agli impianti alimentati a carbone. La legge Obama, varata nell’agosto del 2015, in realtà non è mai entrata in vigore, bloccata dai ricorsi presentati nelle corti federali da 24 Stati. Ma senza quelle misure gli Stati Uniti non sono nelle condizioni di rispettare l’accordo mondiale sul riscaldamento climatico, sancito nel dicembre 2015 a Parigi. Di fatto, quindi, la nuova amministrazione di Washington ripudia gli impegni internazionali sottoscritti 15 mesi fa. Le conseguenze rischiano di essere dirompenti. Altri Paesi, soprattutto quelli emergenti, potrebbero seguire il modello Trump. La Cina, per esempio, faticosamente coinvolta nel fronte ambientalista da Obama: uno Stato che ogni anno immette nell’atmosfera una quantità aggiuntiva di gas equivalente a quella prodotta, nello stesso periodo, dalla Gran Bretagna.
Trump, però, ha presentato l’iniziativa come una misura di politica economica interna. Il presidente sostiene che «i minatori potranno tornare al lavoro» e che gli Stati Uniti avanzeranno ancora verso l’obiettivo dell’autosufficienza energetica. Sarà così? Pare proprio di no, se si considerano le statistiche del Dipartimento dell’Energia, citate dal New York Times. Nel 2015 l’industria del carbone occupava 65.971 addetti, contro gli 87.755 del 2008. Le nuove tecnologie di estrazione e i bassi prezzi del gas naturale hanno cancellato circa 22 mila posti di lavoro. I limiti per la tutela dell’ambiente non c’entrano nulla.
Ma il racconto di Trump è un altro. Le miniere sono concentrate nei territori della vecchia «Rust belt», la cintura industriale ormai «arrugginita» nel Nord. Le parole «carbone», «acciaio», evocano per molti elettori di Trump il ritorno nostalgico all’America operosa, solida, quella della fatica, dei visi anneriti dalla fuliggine. Poi pazienza se nelle montagne del Kentucky il grosso del lavoro ormai viene fatto dai macchinari. Pazienza anche per l’anidride carbonica e per il protocollo di Parigi.
Ma neanche questa volta sarà facile cambiare direzione. Il provvedimento di Trump scava un vuoto giuridico che dovrà essere colmato da un’altra legislazione. Toccherà a Scott Pruitt, il neo direttore dell’Epa, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente, metterla a punto. Pruitt è l’ex procuratore generale dell’Oklahoma: ha costruito la sua carriera facendosi finanziare le campagne elettorali dai petrolieri e portando avanti appelli in serie contro le restrizioni ambientali imposte da quella stessa Agenzia che adesso è chiamato a guidare. Dovrà difendere il suo piano, qualunque esso sia, dall’offensiva già annunciata dalle associazioni ambientaliste e, probabilmente da diversi ex colleghi: nel 2015, i procuratori generali di 18 Stati erano comparsi nei tribunali per appoggiare il «Clean Power Plan».
Ma non basta. Poi sarà la volta del Congresso ed è facile prevedere altre lacerazioni nel partito repubblicano, così come è accaduto con la riforma sanitaria. Ci vorranno mesi, forse un anno per avere una nuova disciplina.