Corriere della Sera

Trump torna al carbone (e alle emissioni) «Così i minatori ritroveran­no il lavoro»

Smantellat­a la legge Obama sull’ambiente. A rischio l’accordo di Parigi. L’offensiva degli ecologisti

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE Giuseppe Sarcina

Secondo una ricerca dello «Yale Program on Climate Change», i due terzi degli americani, esattament­e il 69%, pensano sia necessario imporre dei limiti stringenti alle emissioni di anidride carbonica. Il presidente degli Stati Uniti, però, fa parte dell’altro terzo.

Ieri Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per smantellar­e il «Clean Power Plan» di Barack Obama: via le restrizion­i alle centrali termoelett­riche o agli impianti alimentati a carbone. La legge Obama, varata nell’agosto del 2015, in realtà non è mai entrata in vigore, bloccata dai ricorsi presentati nelle corti federali da 24 Stati. Ma senza quelle misure gli Stati Uniti non sono nelle condizioni di rispettare l’accordo mondiale sul riscaldame­nto climatico, sancito nel dicembre 2015 a Parigi. Di fatto, quindi, la nuova amministra­zione di Washington ripudia gli impegni internazio­nali sottoscrit­ti 15 mesi fa. Le conseguenz­e rischiano di essere dirompenti. Altri Paesi, soprattutt­o quelli emergenti, potrebbero seguire il modello Trump. La Cina, per esempio, faticosame­nte coinvolta nel fronte ambientali­sta da Obama: uno Stato che ogni anno immette nell’atmosfera una quantità aggiuntiva di gas equivalent­e a quella prodotta, nello stesso periodo, dalla Gran Bretagna.

Trump, però, ha presentato l’iniziativa come una misura di politica economica interna. Il presidente sostiene che «i minatori potranno tornare al lavoro» e che gli Stati Uniti avanzerann­o ancora verso l’obiettivo dell’autosuffic­ienza energetica. Sarà così? Pare proprio di no, se si consideran­o le statistich­e del Dipartimen­to dell’Energia, citate dal New York Times. Nel 2015 l’industria del carbone occupava 65.971 addetti, contro gli 87.755 del 2008. Le nuove tecnologie di estrazione e i bassi prezzi del gas naturale hanno cancellato circa 22 mila posti di lavoro. I limiti per la tutela dell’ambiente non c’entrano nulla.

Ma il racconto di Trump è un altro. Le miniere sono concentrat­e nei territori della vecchia «Rust belt», la cintura industrial­e ormai «arrugginit­a» nel Nord. Le parole «carbone», «acciaio», evocano per molti elettori di Trump il ritorno nostalgico all’America operosa, solida, quella della fatica, dei visi anneriti dalla fuliggine. Poi pazienza se nelle montagne del Kentucky il grosso del lavoro ormai viene fatto dai macchinari. Pazienza anche per l’anidride carbonica e per il protocollo di Parigi.

Ma neanche questa volta sarà facile cambiare direzione. Il provvedime­nto di Trump scava un vuoto giuridico che dovrà essere colmato da un’altra legislazio­ne. Toccherà a Scott Pruitt, il neo direttore dell’Epa, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente, metterla a punto. Pruitt è l’ex procurator­e generale dell’Oklahoma: ha costruito la sua carriera facendosi finanziare le campagne elettorali dai petrolieri e portando avanti appelli in serie contro le restrizion­i ambientali imposte da quella stessa Agenzia che adesso è chiamato a guidare. Dovrà difendere il suo piano, qualunque esso sia, dall’offensiva già annunciata dalle associazio­ni ambientali­ste e, probabilme­nte da diversi ex colleghi: nel 2015, i procurator­i generali di 18 Stati erano comparsi nei tribunali per appoggiare il «Clean Power Plan».

Ma non basta. Poi sarà la volta del Congresso ed è facile prevedere altre lacerazion­i nel partito repubblica­no, così come è accaduto con la riforma sanitaria. Ci vorranno mesi, forse un anno per avere una nuova disciplina.

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La firma Donald Trump mentre sigla l’ordine esecutivo sull’ambiente a Washington

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