«Meglio i generali pragmatici degli ideologi di estrema destra»
Il filosofo Michael Walzer: il presidente non ha una vera politica estera Gli uomini del Pentagono capaci, ma in guerra non possono decidere loro
«Certo, dovendo scegliere, meglio i generali piuttosto dell’alt-right, cioè l’estrema destra, alla guida della politica estera americana», dice al telefono dall’Università di Princeton il filosofo politico Michael Walzer. Ma l’autore di «Guerre giuste e ingiuste» (Laterza), un liberal fautore della diplomazia muscolare, si preoccupa anche dei rischi di un potere decisionale assoluto del Pentagono, senza supervisione del governo: nei raid in Yemen e in Iraq si è già visto, infatti, un recente aumento delle vittime civili. «Sembra che siano stati rimossi alcuni dei vincoli voluti da Obama», osserva lo studioso.
La decisione di depotenziare in politica estera il consigliere Steve Bannon, con le sue idee anti-establishment e anti-Islam, è secondo lei un segno che la triade dei generali (Mattis alla Difesa, Kelly all’Interno, e McMaster consigliere della sicurezza nazionale) sta conquistando sempre più peso?
«Sì, la mia impressione è che i generali e gli ex generali stanno acquistando un ruolo più ampio. Certo, se la scelta è tra i generali e Bannon o l’altright, io preferisco i primi. Allo stesso tempo, restano poco chiare le funzioni del segretario di Stato Tillerson: non sembra avere un ruolo effettivo. Questa è la conseguenza del fatto che Trump non ha un vero senso della politica estera, come non ce l’ha di quella interna. Trump ha impulsi, risentimenti, progetti grandiosi per lasciare un’impronta eterna, ma non ha una politica concreta».
Un altro centro di potere è il genero di Trump, Jared Kushner, che è stato definito un mediatore per la pace tra Israele e palestinesi, è appena stato in Iraq, e prepara l’incontro con Xi Jinping. Cosa
E intanto il segretario di Stato Tillerson non ha un vero ruolo, mentre il genero Kushner è come un principe il cui potere deriva dalla parentela con Trump
si aspetta da lui?
«È come se, in un sistema che resta comunque democratico, si sia instaurata una famiglia reale. Il principe Jared ha un ruolo importante in quanto imparentato con la dinastia, benché non sarebbe stato mai eletto».
Che conseguenze ha avuto tutto questo finora sulle scelte di politica estera?
«Nessuno sa bene quale sia la politica estera di questa Amministrazione. In Siria finora gli uomini di Trump hanno annunciato che avrebbero concentrato l’attenzione sull’Isis e che non sono interessati a rovesciare Assad, anche dopo l’ultimo attacco con i gas chimici. Allo stesso tempo, non hanno ancora deciso fino a che punto aiutare i curdi poiché questo solleverebbe problemi con la Turchia. Quanto alla Russia, si potrebbe immaginare che vogliano arrivare a un qualche tipo di accordo, ma è impossibile per loro fare un accordo mentre c’è un’inchiesta sulle possibili interferenze russe nelle elezioni presidenziali».
Che tipo di accordo con la Russia?
«Uno scambio, che certo non sarebbe del tutto esplicito, ma che seguirebbe il vecchio modello delle sfere di influenza, con Washington che ha mano libera in America centrale e Caraibi e Mosca in
Ucraina e in Europa dell’Est; e con la Russia dominante in Siria a patto che l’America abbia l’Egitto. Se fossi polacco, lituano o ucraino sarei preoccupato: mi domanderei quanto l’attuale Amministrazione sia interessata a proteggermi dall’influenza russa».
Sin dal primo raid autorizzato da Trump, in Yemen, ci sono state diverse vittime civili, e così pare sia successo di recente a Mosul in Iraq...
«Questi attacchi sono avvenuti senza un previo esame da parte degli uomini della Casa Bianca. Le decisioni sono lasciate ai comandanti militari locali, senza prendere del tutto in considerazione i requisiti necessari per evitare le vittime civili».
Secondo lei questo è un rischio legato ad un esecutivo che delega tutto il potere decisionale in politica estera al Pentagono? È successo in passato che i generali avessero una simile influenza?
«Sicuramente ci sono stati tempi di guerra in cui i generali hanno avuto un’influenza enorme sulla politica estera. Oggi però quello che salta all’occhio è il contrasto con Obama. L’ex presidente ci teneva a controllare ogni uso della forza, fino al punto di voler dire la sua quando il Pentagono doveva scegliere i singoli siti da attaccare sul terreno. Anche un approccio del genere può causare problemi, ma comunque rispecchia una risolutezza nel voler ridurre al minimo i rischi di vittime civili. Non sono sicuro che questa Amministrazione abbia la stessa determinazione. I generali spesso sono molto pragmatici: per esempio, nel 2003 erano in gran parte contrari alla guerra in Iraq. Il loro pragmatismo può portare ad evitare di iniziare nuove guerre, ma una volta che intervengono militarmente sarebbe saggio che ci fosse una supervisione dei civili su come viene gestita la guerra stessa».
@viviana_mazza