Francesca che trasporta migranti «Il mio crimine è la solidarietà»
Fermata a Ventimiglia, il procuratore francese ha chiesto 8 mesi di carcere
con una alzata di spalle alle obiezioni del suo avvocato sull’emergenza umanitaria, che Francesca non ci ha visto più. E ha preso la parola.
«Gli ho detto che io non vedo la frontiera. Non esiste, e quindi non c’è alcuna illegalità in quel che faccio. Quand’ero piccola ci passavo sempre d’estate con la mia famiglia. Nessuno ci ha mai fermato. Quello è solo un filtro ingiusto e disumano per le persone di colore. Almeno diciamo le cose come stanno». Fine pomeriggio, nel centro della Nizza vecchia. L’associazione Habitat et citoyenneté mette in contatto i migranti che sono riusciti a passare con le famiglie francesi disposte ad accoglierli. Francesca ci lavora per 300 euro al mese. Mette molti paletti alla nostra conversazione. Per indole e per prudenza. Abita sulle alture, in una casa dove insieme ad altri accoglie gli immigrati. Vive tra Italia e Francia. L’anno scorso per due mesi ha fatto da mamma a Loza, una bimba sudanese di 5 anni. La sua famiglia si era divisa al momento della partenza. Quando ha saputo che la madre e il fratello maggiore erano sbarcati in Sardegna, ha noleggiato un camper ed è partita. Ha dato una grossa mano al ricongiungimento familiare, mettiamola così. «Vivono ad Amburgo, e stanno alla grande. La loro libertà è la mia libertà».
Non c’è un punto di svolta, un momento preciso o un trauma nascosto. Certe volte le cose seguono una linea retta. «La mia vita è andata come doveva andare. Sento di non poter fare altro. Chi mi definisce come una pasionaria sbaglia. Non sono neppure una volontaria. Mi ritengo una militante, che pratica la disobbedienza civile per eliminare dei confini che non sono solo territoriali». La ragazza di Madonna dell’Olmo, frazione di Cuneo, laureata a Torino, specializzata a Bologna, è la stessa persona che mentre preparava la tesi insegnava italiano ai migranti, che ha trascorso un anno in Etiopia ad assistere bambini sieropositivi, che ha vissuto sei mesi nella giungla di Calais, che è tornata nei luoghi delle vacanze d’infanzia quando nel 2015 ha visto le proteste dei migranti sugli scogli dei Balzi rossi. Fino a diventare la prima attivista italiana processata a Nizza. «Per un crimine di solidarietà. Ma non fa nulla. Ho scelto Economia proprio perché volevo capire la ragione di certe disuguaglianze nel mondo». Papà è un rappresentante di commercio in pensione, mamma è una impiegata. «Non so se approvano. Hanno accettato, e tanto basta».
Anche oggi un’altra realtà ha bussato alla sua bacheca Facebook. «Spero che ti arrestino e buttino via la chiave». «Grazie per aver portato via dall’Italia otto potenziali rompicoglioni». Gli altri messaggi sono irriferibili. Francesca non si scompone. «Ignoranza. Non come insulto ma nel senso di non sapere». Tira fuori una foto dal cassetto della sua scrivania. «Si chiamava Milet. Veniva dall’Eritrea, aveva 16 anni. Lo scorso ottobre è stata travolta da un Tir sull’autostrada. Era una mia amica. Sono sopravvissuti alla Libia, agli scafisti, al mare. E muoiono come cani a Ventimiglia. Come fai a guardare senza fare nulla? A chiuderti in casa?». Bussano, questa volta alla porta. La tensione si scioglie. C’è una famiglia in partenza, vuole salutare la sua Francesca, che finalmente sorride. «Scusa, ma adesso ho da fare. Dove vanno? Non te lo dico».
Gli ho detto che non vedo la frontiera, non esiste Quando ero piccola ci passavo e nessuno controllava