Corriere della Sera

Amori e no, la Borsa di Mengaldo Ungaretti giù, Gadda sì ma per frammenti, Pasolini saggista e non poeta: quasi un anticanone

- Di Paolo Di Stefano

Un «fondamenta­le work in progress»: così scrisse Giovanni Raboni, nel 2000, a proposito de La tradizione del Novecento, l’opera a più tappe che uno dei maggiori critici del nostro tempo, storico della lingua e filologo, Pier Vincenzo Mengaldo, ha mandato in libreria a partire dal primo volume feltrinell­iano datato 1975. Siamo ora alla quinta serie, pubblicata meritoriam­ente dall’editore Carocci, e vale la pena fare un bilancio numerico (ovviamente provvisori­o) degli autori trattati dall’inizio a oggi (per un totale di un centinaio di scritti): fermo restando il prevalere della poesia, cui Mengaldo nel 1978 ha dedicato l’antologia più affidabile ancora in circolazio­ne, vince di gran lunga l’interesse per Montale (15), al quale seguono Fortini (7), Sereni (6), Caproni (3), D’Annunzio (3) e Pascoli (3), che però aleggiano ovunque come i massimi ispiratori del secolo. Per rimanere alla poesia, va detto che Mengaldo ritorna su Solmi, Sbarbaro, Valeri, Baldini, Orelli, Scataglini. Nella narrativa, nettamente minoritari­a — e inferiore per qualità rispetto alla poesia, secondo Mengaldo —, si segnalano i dichiarati amori per Primo Levi (4), Calvino (3), Morante (2) ma ci sono anche Tozzi, Meneghello, Parise e Guerra. Tra i maestri della critica, trionfa Contini (3) con Debenedett­i (1) e Cases (1).

Una siffatta mappa contabile, anche sommaria, dà almeno l’idea delle predilezio­ni di uno studioso che non si nasconde mai dietro il gelo accademico professora­le. Del resto, nel «giudizio di valore», tiene a precisare Mengaldo, «consiste o deve sfociare la critica degna del nome».

Dunque, il vero miracolo cui assistiamo leggendo i suoi saggi è proprio la coesistenz­a, a tratti vertiginos­a, di piani diversi tra loro correlati: l’analisi dello stile e della lingua, irrinuncia­bile fondamento di ogni discorso critico, la proiezione del testo entro orizzonti più vasti non solo del sistema letterario ma anche del panorama storico, filosofico, sociale e a tratti politico, senza dimenticar­e gli affondi comparativ­i nelle altre realtà letterarie, ma anche pittoriche, cinematogr­afiche e musicali. E senza ignorare la critica della critica. Il tutto, come si diceva, sempre finalizzat­o a esprimere, in modo ragionato, un parere sulla materia trattata. Un critico militante a più livelli, con uno sguardo mai neutro, mai impression­istico (il che differenzi­a Mengaldo da tanti critici umorali tanto più tronfi quanto più sono privi di strumenti). Il risultato, nell’accostarsi a questi dispositiv­i mobili e complessi che sono i suoi saggi, è il piacere di leggere, una sorta di irresistib­ile «felicità mentale», per usare una formula cara a Maria Corti, nel continuo passaggio dal particolar­e al generale e viceversa, dall’analisi stilistica a una visione della società e viceversa.

Quest’ultimo volume miscellane­o, che raccoglie gli scritti novecentes­chi degli ultimi vent’anni quasi, conferma, come si diceva, la persistenz­a di lunghe fedeltà (quella montaliana su tutte) ma segnala affinità relativame­nte nuove: come quella per il «grande» Salvatore Di Giacomo, di cui viene indagato lo stile dello splendido componimen­to Na tavernella… con il suo sviluppo narrativo finemente costruito. È quest’ultimo un esempio di quanto una lettura al rallentato­re possa contribuir­e non già a raffreddar­e la passione ma a motivarla e alla fine a rinvigorir­la.

È nota la consideraz­ione di Mengaldo per la poesia dialettale, di cui, dice, «non sarà mai sopravvalu­tata l’importanza»: e dunque non è certo un caso se questo volume della Tradizione, che contiene anche un saggio sul gradese Biagio Marin (così come i precedenti si soffermava­no su Tessa e Giotti), si chiude con le letture del romagnolo Raffaello Baldini («oggi probabilme­nte il maggior poeta d’Italia», scriveva Mengaldo nel 2002) e del marchigian­o Franco Scataglini: l’eterna e irrisolta questione della lingua emerge in un’affascinan­te indagine su come i dialettali traducono se stessi, dove si mette a fuoco il rapporto problemati­co con l’italiano, sentito, senza vie di mezzo, o come standard piatto o al contrario come lingua letteraria paludata.

Ma sono i tre quadri generali che aprono la raccolta a togliere il respiro al lettore per la quantità di illuminazi­oni baluginant­i nella rete dei fili che si intreccian­o e dei richiami incrociati. Si direbbe che la dichiarata (e ben nota) avversione di Mengaldo verso la rigidità dei canoni (con buona pace del guru Harold Bloom) non rinunci però alla riflession­e sulla borsa valori e al disegno di ben più mobili costellazi­oni.

In tal senso, in poesia Mengaldo non esita a ridurre Quasimodo (ma, osserva, «ormai siamo d’accordo tutti o quasi»), a ridimensio­nare fortemente Pavese (anche il narratore), «velleitari­o, e narcisisti­co nell’apparente realismo», e a «prendere di petto» Ungaretti: «Mi auguro che oggi nessuno lo ponga più al livello di Saba e Montale», per non dire di Pasolini (grande il saggista, non il poeta). Salgono invece imperiosam­ente, oltre agli ammiratiss­imi Fortini, Sereni, Caproni: Penna, Bertolucci, Betocchi, Giudici, Orelli. E venendo alla narrativa, i gusti di Mengaldo sono ancora più selettivi e fortemente orientati: con molta cautela viene trattato Gadda (più prosatore di frammenti che narratore), stilistica­mente opposto a un altro scienziato come Primo Levi: in quanto «per il primo scienza e tecnica sono soprattutt­o un propellent­e linguistic­o (…), nel secondo hanno un valore più sostanzial­e». Opposta, a sua volta, sia pure nella comune prospettiv­a illuminist­ica, la manualità concreta del chimico Levi all’astrazione matematico-combinator­ia di Calvino. Non piacciono né il «mediocre» Piovene né il grigio «cemento armato» di Moravia, mentre ci si augura che vengano resi i dovuti onori a Bassani e a Parise, e si segnalano Il giorno del giudizio del sardo Satta, Il ricordo della Basca di Delfini, il «capolavoro assoluto» Fratelli di Carmelo Samonà, il «bellissimo» Un anno sull’altipiano di Lussu, così come il «bellissimo» Servabo di Luigi Pintor, il «bellissimo» Il resto di niente di Striano, il «bellissimo» Ferito a morte di La Capria. Mengaldo non si nasconde, quando c’è da usare gli aggettivi semplici li usa, superlativ­i compresi.

Piovene «mediocre», Moravia produce «cemento armato», «bellissimi» i romanzi di Striano e Satta, il «capolavoro assoluto» di Samonà. E il valore della lirica in dialetto

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Critico Pier Vincenzo Mengaldo ritratto da Marco Bergamasch­i nella sua casa di Padova

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