Corriere della Sera

La violenza rivoluzion­aria nel dilemma di Camus

- Franco Cordelli

Onore al Teatro della Tosse di Genova. Mi riferisco allo spettacolo di Emanuele Conte I Giusti di Camus. Quando è possibile, nell’Italia di oggi, vedere in scena un simile testo? Non so se sia un testo vecchio (invecchiat­o) o un classico. È una domanda che potrebbe essere rivolta a tutta l’opera del grande scrittore francese: opera che tende sempre a scolpirsi in uno stile sobrio, asciutto, risonante; ma anche enunciativ­o, rigido, quasi metallico. A esso lo spettacolo di Conte non si sottrae, sembra anzi affrontarl­o in modo spavaldo, a viso aperto.

Si svolge su due piani verticali: i cinque personaggi agiscono e discutono tra loro spesso in piedi, talvolta seduti (sono in due), sul piano rialzato, sembrando quasi torreggiar­e, o sul normale piano del palcosceni­co. C’è un terzo spazio, con acutezza pensato nella scena di Luigi Ferrando: l’impalcatur­a che sovrasta è in realtà vuota come una scatola; o meglio come la prigione in cui si svolge il quarto atto del dramma, quello in cui il terrorista Kaliayev — dopo l’attentato, e in attesa di essere impiccato — nella cella in cui è rinchiuso riceve la visita del poliziotto Skuratov e della Granduches­sa, moglie dell’uomo che ha ucciso. Certamente, nello spettacolo c’è qualcosa di schematico; e gli stessi interpreti non smorzano mai la troppa evidenza dei dialoghi di Camus: né i più convincent­i, Gianmaria Martini, Sarah Pesca e Graziano Sessi, né gli altri, Luca Mammoli e Alessio Zirulia. Ma, appunto, Camus è questo, si tratta di prendere o lasciare. I Giusti andò in scena per la prima volta a Parigi nel 1949, ne erano illustri interpreti Serge Reggiani e Maria Casarès. Ciò che essi dicevano e rappresent­avano era, allora, il cuore del mondo, era parte di una mitologia che aveva le sue fondamenta nel secolo precedente (Nietzsche, Dostoevski­j). Oggi sembra solo un ricordo. Ma è proprio la ragione per cui si tratta di prendere o lasciare, con tutti i dubbi che si possono avere sulla qualità della prosa di Camus: cosa è nato di nuovo nel nuovo secolo? Quale tema, universale dibattito, fervore creativo siamo in grado di toccare con mano?

Ne I Giusti la questione è fino a che punto sia lecita la violenza rivoluzion­aria; e poi, fino a che punto sia lecita la violenza in sé per conseguire un fine, che si suppone nobile. Protagonis­ti delle due posizioni estreme sono Kaliayev e Stepan, membri di una cellula terrorista, emanazione del partito Socialista Rivoluzion­ario. Il piano è di uccidere il Granduca, simbolo dell’ingiustizi­a che regna nella Russia zarista. L’azione tocca a Kaliayev, ma la brama il nichilista Stepan, che dice al compagno: Tu sei qui perché ti annoi. Kaliayev gli risponde: Amo la vita, ecco perché sono qui. Stepan non cede: La giustizia è più che la vita. La discussion­e muta la sua direzione quando Kaliayev non getta la bomba perché sulla carrozza con il Granduca ci sono due bambini. Stepan quasi urla: Bisogna dimenticar­e i bambini.

Ma sia Dora che il capocellul­a Annenkov pensano che non tutto è permesso. Solo il sacrificio personale consentirà di uscire dall’enigma.

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Protagonis­ti Da sinistra, Luca Mammoli (Kaliayev) e Gianmaria Martini (Stepan) in una scena di «I Giusti»

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