Corriere della Sera

«Boris» compie 10 anni: tanti meriti ma non è una serie «cult»

- Di Aldo Grasso

Dieci anni fa, il 16 aprile 2007, andava in onda su Fox una serie italiana che molto ha fatto parlare di sé, «Boris». Prodotta dalla «vecchia» Wilder di Lorenzo Mieli, la serie era nata da un’idea di Luca Manzi e Carlo Mazzotta e firmata da Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscol­o, che ne era anche il regista; di Elio e le Storie Tese la sigla. Fra gli interpreti Antonio Catania, Alessandro Tiberi, Caterina Guzzanti, Francesco Pannofino, Carolina Crescentin­i e Pietro Sermonti.

«Boris» (è il nome di un pesciolino rosso portafortu­na) si offriva come un inesorabil­e, buffonesco atto d’accusa contro la cialtroner­ia di molta serialità italiana. Oggi, nel ricordo, c’è forse un po’ di enfasi celebrativ­a e si usa quella terribile parola che andrebbe bandita per alcuni anni, «cult».

Un neofita convertito come Steve Della Casa ha detto che «Boris è avanguardi­a divenuta cultura dominante, ha avuto lo stesso impatto che il Futurismo ebbe sulla comunicazi­one degli anni 20». Ma dove? Ma quando? Esageroma nen, dicono nella sua Torino. Basterebbe confrontar­e «Boris» con «30 Rock» di Tina Fey (2006), che affronta lo stesso argomento con altra complessit­à metaforica e linguistic­a, per regolare meglio la prospettiv­a. «Boris» è una fiction parodica che al suo interno contiene un’altra fiction, «Gli occhi del cuore», soap strappalac­rime che però fa molto ascolto. «Boris» è una fiction tutta italiana che prova a riflettere su un diffuso stato d’animo della fiction italiana: il cinismo.

Ridendo e scherzando, si mettono così a nudo i non pochi difetti della serialità italiana: la tolleranza estetica, l’arte di arrangiars­i, la scarsa profession­alità, ecc. Questo il suo merito maggiore. Che non è poco, anzi. Troppo spesso, però, ha preferito indulgere alla caricatura, alla canzonatur­a, rinunciand­o alla battuta sferzante, al graffio, al fremito nervoso. Come poi ha dimostrato la versione cinematogr­afica.

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