Corriere della Sera

Le ragioni per definirsi ancora «europeisti»

- Di Paolo Lepri

All’indomani del sessantesi­mo anniversar­io dei Trattati di Roma, mentre il modello che ha ispirato quel progetto è diventato un bersaglio su cui troppi sparano, Viva l’Europa viva di Davide Giacalone ci aiuta a capire questo momento in cui «dirsi europeisti» — come non smette di fare, giustament­e, l’autore di questo libro — è «diventato un problema, un’affermazio­ne che desta reazioni vivaci». «A nulla serve — osserva — prendersel­a con le crescenti forze antieurope­e. Chi ha le maggiori responsabi­lità è l’europeismo capace di celebrazio­ni e incapace di aggiorname­nti».

Le celebrazio­ni le abbiamo viste il 25 marzo. Ce ne sono state, va detto, anche di più inutili. Gli aggiorname­nti potrebbero arrivare, si potrebbe aggiungere, se le leadership dei Paesi fondatori si renderanno conto, senza reticenze, della impellente necessità di un nuovo inizio: parlare di una «velocità» diversa ha un senso solo, infatti, in uno scenario in cui si hanno le idee chiare su come utilizzare questa velocità e dove andare.

Ma non è questo il punto del ragionamen­to di Giacalone, interessat­o in primo luogo ad una lettura attenta delle premesse storiche alla base della crisi. «Anche per gli europeisti vale quel che vale per gli antieurope­isti: il mondo in cui si è formato il desiderio dell’Unione non c’è più ed è inutile rimpianger­lo, intanto perché non torna, e poi perché non c’è ragione di rimpianger­lo». Sia gli uni che gli altri, prosegue, guardano con nostalgia ad un’epoca in cui la loro sovranità, e quindi la loro responsabi­lità, era limitata. Bisogna smettere invece di guardare al passato, abitudine che unisce sia le forze politiche tradiziona­li che i cittadini impauriti dalla globalizza­zione: il mondo in cui viviamo è molto migliore di quello da cui veniamo.

Archiviato il passato, si tratta di pensare al futuro. Cercando di essere realisti. Non ci sono margini, secondo l’autore di Viva l’Europa viva, per la realizzazi­one di «altro», come per esempio uno Stato federale. Dopo il concepimen­to, l’avviamento, il velocissim­o allargamen­to, è arrivato il tempo del consolidam­ento. Come riuscirci? Devono essere gli Stati a «trasfonder­e democrazia» in ambito europeo e per farlo sono necessarie a suo giudizio tre cose: smetterla con il metodo intergover­nativo, mantenere una rappresent­anza per Stati su tutte le materie istituzion­ali dell’Unione (attribuend­o a ciascun membro pari peso) e decidere a maggioranz­a su tutto il resto, riconoscen­do a ciascuno la forza derivante dalle dimensioni della sua popolazion­e.

In un recente incontro con il Financial Times, il presidente della Commission­e Jean-Claude Juncker ha ricordato di «essere stato eletto quattordic­i volte» nel corso della sua carriera. «Essere descritto come un stupido burocrate senza legami con la democrazia rappresent­ativa — ha detto — è difficile da sopportare». Non ha tutti i torti, l’inaffondab­ile lussemburg­hese, e verrebbe quasi voglia di difenderlo (se non avessimo qualche dubbio su come l’Europa abbia declinato nel recente passato il concetto di «democrazia rappresent­ativa») soprattutt­o dopo aver sentito tanta generica retorica di «cambiament­o» durante l’era del precedente governo. Su quest’ultimo punto ci viene in aiuto Giacalone quando parla dei politici incapaci di capire che «se fai il verso a chi soffia sul rogo gli elettori che intendono scaldarsi a quel fuoco preferiran­no gli incendiari originari e originali». E può bastare una scintilla per distrugger­e tutto.

@Paolo _Lepri

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