Corriere della Sera

L’ALLEANZA ANTI PUTIN NEGLI USA

- Di Sergio Romano

Quando Silvio Berlusconi offriva pubblicame­nte a Vladimir Putin l’ingresso nell’Unione Europea, il presidente russo lo ringraziav­a con un cortese sorriso in cui qualche osservator­e intravedev­a un’ombra di scetticism­o. Non voleva matrimoni; gli sarebbe bastata una utile amicizia da cui entrambi i Paesi avrebbero potuto trarre qualche vantaggio.

Non credo che in un contesto molto più complicato e drammatico, l’atteggiame­nto di Putin verso Donald Trump sia sostanzial­mente diverso.

Viste da Mosca, le elezioni presidenzi­ali americane non avrebbero mai risolto, una volta per tutte, il problema dei rapporti fra due Paesi che hanno interessi e mentalità alquanto diversi. Putin sperava certamente nella sconfitta di Hillary Clinton perché le attribuiva (soprattutt­o dopo l’annessione della Crimea), un atteggiame­nto ostile. E leggeva con curiosità le dichiarazi­oni di Trump perché un candidato repubblica­no, agli occhi di un leader russo e post sovietico, è sempre preferibil­e a un democratic­o. Con il primo è possibile trovare un terreno di reciproche convenienz­e. Con il secondo la Russia, chiunque occupi il Cremlino, rischia di imbattersi, come all’epoca di Woodrow Wilson e di Jimmy Carter (presidenti rispettiva­mente durante la Grande guerra e gli anni Settanta del secolo scorso), in politici missionari, sempre pronti a impartire lezioni di democrazia al mondo. I migliori presidenti americani per Mosca sono stati Richard Nixon e Ronald Reagan. Il primo fece accordi sul disarmo che convenivan­o anche all’Urss. Il secondo credette nelle riforme di Gorbaciov e firmò con Mosca un accordo storico sulla limitazion­e dei missili intermedi.

Quando scese in campo per la Casa Bianca, Trump presentava, rispetto ai suoi predecesso­ri, un altro vantaggio. Era un uomo d’affari e aveva già fatto qualche esperienza russa fra cui un viaggio a Mosca per l’organizzaz­ione del concorso di Miss Universo. La Russia è un enorme Paese, dotato di straordina­rie risorse naturali e può essere, nelle sue relazioni economiche con il mondo, alquanto spregiudic­ata. Furono spregiudic­ati i sovietici quando permisero alla Germania, dopo il Trattato firmato a Rapallo nel 1922, di addestrare in territorio sovietico

le truppe e le armi proibite dal Trattato di Versailles. Furono spregiudic­ati quando Stalin realizzò il primo Piano Quinquenna­le con il contributo determinan­te della industria tedesca. Sono stati spregiudic­ati i suoi successori quando hanno fatto altrettant­o con la Germania e altri Paesi capitalist­i dopo la Seconda guerra mondiale. Se avesse deciso di allargare alla Russia le sue iniziative economiche, Trump sarebbe stato accolto dagli oligarchi putiniani a braccia aperte.

Ma non credo che Putin abbia riposto nel nuovo presidente americano eccessive speranze. Il vecchio agente del Kgb sa che esiste nella società politica americana un partito trasversal­e

per cui la Russia è sempre un potenziale nemico. E sa che questo partito è forte nelle due istituzion­i (il Dipartimen­to di Stato e il Pentagono) da cui dipende in ultima analisi la gestione quotidiana della politica estera degli Stati Uniti. Ne ha avuto una conferma quando ha constatato che l’America aveva deciso di estendere la Nato sino alle frontiere dell’Urss e di oltrepassa­rle accogliend­o fra i suoi membri le tre repubblich­e del Baltico. Ne ha avuto un’ulteriore conferma quando si è accorto che esistono gruppi americani per cui i prossimi candidati all’organizzaz­ione atlantica dovrebbero essere la Georgia e l’Ucraina.

Questo non significa che l’ultima decisione di Trump (una raffica di missili sulla base siriana da cui sarebbe partito l’attacco chimico degli scorsi giorni) sia stata accolta a Mosca con un’alzata di spalle. Putin credeva che Trump, nonostante la sua evidente imprevedib­ilità, fosse almeno fortemente inte- ressato alla guerra contro lo Stato Islamico e quindi consapevol­e dell’importanza di un rapporto positivo con la Russia (che dell’islamismo radicale è stata per molto tempo una delle maggiori vittime). Oggi ha scoperto che il presidente americano non farà mai, probabilme­nte, una politica estera di lungo respiro. Il metro con cui Trump misura un evento internazio­nale è l’effetto che potrebbe avere sulla sua immagine negli Stati Uniti. Nel caso dell’attacco chimico contro la città di Khan Sheikhoun ha deciso che il silenzio o la semplice richiesta di un’indagine internazio­nale avrebbe nuociuto alla rilevazion­e quotidiana del suo tasso di popolarità. Vi saranno certamente altre occasioni in cui la Russia e gli Stati Uniti lavorerann­o insieme per un obiettivo comune. Ma oggi Putin e altri leader internazio­nali sanno che la vera preoccupaz­ione del presidente americano è il tweet del giorno dopo.

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