I CONTI DA FARE CON IL CREMLINO
CREMLINO
Imissili sanno essere ottimi postini, ma se al loro lancio il mittente non unisce una strategia che li renda davvero efficaci il pericolo è di provocare una tragedia ancor peggiore di quella che si voleva sanzionare. I cinquantanove Tomahawk lanciati da Donald Trump contro la base aerea siriana dalla quale sarebbe partito l’atroce attacco chimico contro Khan Sheik hanno recapitato puntualmente i loro telegrammi.
Assad ha capito che l’America tornerà a colpirlo se lui tornerà a usare i gas; Putin ha dovuto riconoscere che Trump è meno isolazionista di quanto si pensasse; il cinese Xi Jinping, commensale quanto mai vulnerabile in quelle ore, ha ben inteso che uno schema simile potrebbe applicarsi alla Corea del Nord; e sul fronte interno Trump ha colto l’occasione per mostrare a tutti fino a che punto lui è diverso da Obama.
Un autentico capolavoro, se soltanto fosse chiaro quale elemento prevale sugli altri, quali sono i traguardi da raggiungere, quale strategia, insomma, segna in queste ore il ritorno sulla scena mondiale di una America determinata a difendere i suoi valori (che sono anche i nostri) e il suo ruolo di prima superpotenza. Una strategia, è ben vero, può nascere anche cammin facendo, passo dopo passo come diceva Henry Kissinger nei suoi anni d’oro. E questa è una prospettiva che si accorda bene con quanto sappiamo di Trump, delle sue improvvisazioni, della sua capacità di cogliere al volo vantaggi che parevano impossibili.
Ma in Siria, dal 2011, sono morte 400mila persone; nello stesso periodo ci sono stati milioni di profughi, e soltanto una minoranza di loro ha tentato di raggiungere l’Europa; decine di migliaia di bambini soffrono la fame, e moltissimi altri sono stati uccisi. In Siria si combattono molteplici guerre per procura tra membri della comunità internazionale, anche occidentali, che hanno interessi contrastanti e li affidano al sangue delle fazioni in lotta. Per questo la Siria è un indice accusatorio puntato contro ognuno di noi, o almeno contro ognuno dei governi più o meno potenti che hanno alzato le mani davanti alle complessità della contesa.
Per tutti questi motivi il lancio di missili in funzione punitiva, al di là del favore che può raccogliere sull’onda del disgusto causato da una strage al Sarin, non deve e non può fare a meno di una strategia. E a consentire di verificare se essa esista, se l’America abbia calcolato i pro e i contro prima di premere il grilletto, saranno gli incontri che il Segretario di Stato Rex Tillerson avrà a Mosca da lunedì sera a mercoledì. Tillerson, proveniente da Lucca dove avrà partecipato a un G-7 di ministri degli Esteri, dovrà fare i conti con un Cremlino umiliato più che irritato. Non erano le forze russe, dopo l’intervento del 2015, a fare il bello e il cattivo tempo in Siria? Non avevano promesso di collaborare con Mosca, gli americani del nuovo corso, almeno nella lotta contro l’Isis e il terrorismo? E ora arrivano cinquantanove missili, con un preavviso buono soltanto per mettersi in salvo e magari avvertire l’alleato Assad?
Putin dovrà salvare la faccia, e non è un caso che in queste ore le cancellerie europee stiano bombardando il Cremlino con inviti alla moderazione. Gli europei, del resto, non possono più rimanere alla finestra. Esiste il pericolo, se le conversazioni di Mosca andranno male, che i processi negoziali di Ginevra e di Astana si blocchino, che la copertura di legittimità dell’Onu (della quale Trump ha fatto a meno) diventi uno sbiadito ricordo, che la guerra tra sciiti e sunniti si estenda ben oltre i confini della Siria, che la Siria stessa si frantumi come molti osservatori prevedono da tempo, e che sull’Europa, punto delicato anche per i cinici indifferenti ai massacri “lontani” , si abbatta una ondata di profughi che non sarebbe più possibile contenere, muri o non muri.
Ecco perché da questa parte dell’Atlantico si spera che un piano Trump lo abbia. Si spera che Tillerson confermi a Putin che il castigo di Assad per il ricorso alle armi chimiche è un episodio, che il desiderio di collaborare con Mosca contro l’Isis e contro il terrorismo è ancora vivo malgrado i molti ostacoli che si frappongono a un vero reset dei rapporti bilaterali (le polemiche sulle interferenze elettorali negli Usa, il disaccordo sull’Ucraina, il rinvio alle calende greche della revoca delle sanzioni economiche), che insomma America e Russia devono dialogare mentre la prossima caduta di Mosul e il vicino attacco a Raqqa annunciano una svolta negli equilibri mediorientali.
Forse gli europei si illudono. Forse quei missili hanno recapitato messaggi che non sono cancellabili tanto facilmente. In tal caso a pagare il prezzo saranno come sempre i siriani, diventati carne da macello in una guerra che ne nasconde troppe altre.