Corriere della Sera

Ghetti islamici e «soldati di Odino» Dove crolla il mito dell’integrazio­ne

- dal nostro inviato Stefano Montefiori

All’angolo del Haymarket Hotel, nel centro di Stoccolma, i cittadini portano candele, foglietti con i cuori e fiori, secondo il rituale ormai consueto di un post-attentato europeo. Di diverso c’è che qui gli agenti armati chiamati a far rispettare il cordone di sicurezza — l’attacco si è svolto a pochi metri — mettono i fiori pure sulle auto con la scritta «Polis», e le Volvo della polizia ricoperte di rose e tulipani evocano subito pacifismo anni Sessanta: certo incuterann­o ancora meno timore agli aspiranti jihadisti, ma almeno rassicuran­o la popolazion­e sul fatto che la Svezia, come dice il premier Stefan Löfven, proverà a restare se stessa, «non la daremo vinta all’odio».

Il guaio però è che l’odio, o almeno qualcosa che gli assomiglia, non c’è bisogno di importarlo dalla Siria, dall’Iraq o dall’Uzbekistan. Cresce e sta aumentando anche a pochi chilometri da qui, nei quartieri-ghetto riservati agli immigrati teatro di rivolte e scontri sanguinosi, e anche nelle ronde dei Soldiers of Odin, la gang che vuole ridare «la Svezia agli svedesi» pure a colpi di bastone contro gli stranieri, se necessario.

La zona di Rinkeby

A pochi metri dai fiori e dalle candele si prende la metropolit­ana dalla stazione centrale di Hötorget in direzione Nordovest, e dopo neanche venti minuti di viaggio si arriva a Rinkeby, il quartiere di periferia dove poche settimane fa sette auto sono state date alle fiamme e la polizia ha sparato prima in aria e poi sulla folla. Il presidente americano Donald Trump qualche giorno prima parlando della Svezia si era inventato un attentato non ancora avvenuto, non le difficoltà dell’integrazio­ne.

La sensazione di avere un altro mondo a portata di metrò è comune a molte città occidental­i, ma qui il contrasto è unico: sbucati in superficie non si vede una donna a capo scoperto. Le giovani portano il velo, le altre sono in maggioranz­a in niqab, la tunica che lascia scoperti solo gli occhi peraltro coperti da occhiali con lenti scure.

Nella piazza del quartiere si rivendono vestiti usati e narghilè, abbonament­i a canali tv iraniani, afghani e nord-africani, ci sono un «suk marocchino» e un centro culturale islamico da cui escono tre uomini in djellaba. «Mi dispiace per gli svedesi — dice in inglesu se uno dei tre che sostiene di chiamarsi Ahmed —, ma c’è troppa rabbia in giro, tutti sapevano che prima o poi qualcosa di grosso sarebbe capitato».

Un milione di case

Dopo gli attentati a Charlie Hebdo, al Bataclan e a Bruxelles si è sottolinea­to lo scenario post-coloniale, Christophe­r Meserole e William McCants Foreign Affairs hanno scritto di una «French Connection» collegando terrorismo islamico e francofoni­a.

Ma la Svezia? Quale presunta colpa colonialis­ta dovrebbe scontare? Qui gli immigrati in maggioranz­a islamica sono arrivati perché la Svezia è stato ed è ancora il Paese con la politica più aperta nei confronti dei rifugiati, arrivati in massa dopo ogni crisi: dall’ex Jugoslavia all’Iraq della guerra del Golfo, dal Kosovo all’Afghanista­n alla Siria.

Nel 2015 la Svezia — Stato di 10 milioni di abitanti — ha accolto 163 mila migranti, un record, ma secondo la geografa Irene Molina «non c’è altro Paese dell’Osce che abbia periferie così segregate dal punto di vista etnico».

Rinkeby, così come la vicina Hjulsta dove figura l’indirizzo del terrorista del camion, sono esplose negli anni Settanta quando hanno accolto centinaia di migliaia di persone. Era il programma unico al mondo del «milione di case», il sogno del governo socialdemo­cratico di assecondar­e il processo di industrial­izzazione e urbanizzaz­ione del Paese con alloggi a basso prezzo per tutti, svedesi e non.

Sui quasi 20 mila abitanti di Rinkeby, oggi oltre il 90% sono di origine straniera e neanche la lingua è la stessa: qui è nato lo «Rinkeby Swedish», lo slang parlato nelle periferie dagli immigrati e in città dai ragazzini borghesi che cercano di darsi una credibilit­à di strada.

Le sommosse a Rinkeby scoppiano con cadenza regolare, da anni, anche perché trafficant­i e spacciator­i sono gelosi del loro territorio. Nel 2014 il commissari­ato di polizia venne chiuso, da qualche mese è stato deciso di costruirne uno nuovo. La scadenza dell’appalto continua a essere prorogata, eppure le aziende non si iscrivono alla gara. «Nessuno vuole vincerla, perché sarebbe un cantiere troppo pericoloso», dicono i poliziotti coperti dall’anonimato.

Immigrati e terrorismo

Le cause del terrorismo islamico sono complesse e variano da Paese a Paese, le difficoltà dell’integrazio­ne sono talvolta lo sfondo di attentati dei quali i cittadini musulmani sono vittime quanto gli altri. Ma per alcuni invece la correlazio­ne tra società multietnic­a e terrorismo islamico è diretta: i Soldiers of Odin sono nati in Finlandia nell’ottobre 2015 e si sono velocement­e propagati in Nordameric­a, Australia e soprattutt­o Scandinavi­a.

Struttura e immagine da gang di motociclis­ti, sono suprematis­ti bianchi che vogliono tornare alla «Svezia di un tempo». Il loro capo Mikael Johansson organizza ronde armate, qualche volta danno la caccia agli stranieri e la mattina dell’attentato erano entrati in azione in una scuola musulmana.

Con modi infinitame­nte più presentabi­li, non la pensano in modo troppo diverso i militanti del «Sverige Demokrater­na» che sta diventando il primo partito svedese. Jimmie Åkesson è il Marine Le Pen del Nord: l’obiettivo è uscire dall’Unione europea con il motto «sicurezza e tradizione».

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In lacrime La commozione della principess­a Vittoria sul luogo dell’attentato con il principe Daniel (Reuters)

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