Gelosia, parola da abolire di fronte ai femminicidi
Ci sono parole la cui espulsione definitiva dal vocabolario d’uso, in certi contesti, equivarrebbe a una grande conquista di civiltà. Una di queste è «gelosia», quando assurge ad attenuante se non a giustificazione di un crimine tout court. Eliminarla sarebbe un passo avanti, così come non tantissimi anni fa (1981) è stato espunto, non solo dalla legge ma dalla nostra mentalità e infine dal nostro dizionario, il «delitto d’onore» accostato alla sfera sentimentale. Se l’onore continua a esistere, abbiamo il sollievo di non vederlo più affiancato al suo contrario. Del resto, all’opposto di Balzac che definiva la gelosia la passione più nobile e deliziosa, già Shakespeare sconsigliava dall’assecondarla, se nell’Otello, la tragedia di un (presunto) tradimento che portò al femminicidio più celebre della letteratura, mise in bocca a Iago questa plastica metafora infernale: «Guardatevi, signore, dalla gelosia, è un mostro dagli occhi verdi che irride il cibo di cui si nutre». Insomma, un paradosso bestiale per una parola che, derivando dal latino «zelus», contiene in sé il concetto di desiderio tormentoso, di amore che diventando «cieco» (ma può essere cieco l’amore?) arriva a guidare la mano criminale di un uomo (più spesso che di una donna) contro l’oggetto del proprio amore: un sopruso derivante dal senso di possesso esclusivo. Parlare di «assassinio per gelosia» finisce per ammettere nei nostri orizzonti mentali questa irragionevole possibilità. E siccome ogni tre giorni avviene un delitto contro le donne viziato da questo paradosso, sarebbe utile recuperare un giusto rapporto con le parole, stabilire un’ecologia lessicale. Non è «politicamente corretto», è (solo?) correttezza morale, se è concesso usare questo aggettivo desueto che invece andrebbe recuperato.