La sindrome di Mowgli La bimba «cresciuta tra le scimmie» in realtà è una disabile abbandonata «Ma gli animali adottano i cuccioli»
Le favole nascondono spesso verità terribili. Addolcite dal finale positivo, con una istruttiva morale narrativa. Allo stesso modo certi atroci fatti di cronaca sembrano più sopportabili se ricondotti a una matrice letteraria, favolistica o romanzesca, dotata di senso. È per questo, forse, che la bambina di 8 anni trovata in una riserva naturale nell’India del nord in compagnia di un gruppo di scimmie è diventata subito la «girl Mowgli», la versione femminile di Mowgli, il protagonista del Libro della giungla (1894) di Rudyard Kipling, scrittore britannico nato in India: una storia, quella del bambino adottato dagli animali della foresta, mai tramontata sul grande schermo, da Walt Disney a Truffaut, fino ai giorni nostri.
La piccola indiana, secondo le prime ricostruzioni, si comportava come le scimmie con cui è stata trovata: come loro mangiava, camminava a quattro zampe, emetteva vocalizzi gutturali. Le foto e i video che la ritraggono all’ospedale hanno fatto il giro del mondo, commuovendo tutti. Poi, però, sono emersi i primi dubbi, a seguito di dati fattuali che cozzano con la versione disneyana della storia. Sì, la bambina imitava le scimmie, e con loro ha trascorso del tempo, ma certi atteggiamenti deriverebbero più che altro da disturbi psicologici e fisici, che sono la plausibile causa, spietata, dell’abbandono da parte della famiglia.
No. Non è una storia falsa come quella che la belga Misha Defonseca spacciò per vera in Sopravvivere con i lupi, arrivando a mentire anche sui legami tra la sua famiglia e la Shoah; ma, forse, non è neanche vera come quella del niño lobo, Marcos Rodríguez Pantoja, che tra gli Anni 50 e 60 visse da bambino con un vero branco di lupi, dopo la morte del pastore cui era stato venduto dal padre, in difficoltà.
E allora, alla domanda su come alcuni animali selvaggi possano adottare dei cuccioli d’uomo si aggiunge quella sul perché ci colpiscono tanto queste storie: quasi una «sindrome Mowgli».
Per l’etologo Enrico Alleva, autore di La mente animale, Accademico dei Lincei, non c’è bisogno di risalire a Romolo e Remo allattati dalla Lupa: «Le nostre vite metropolitane ci fanno apparire mitico qualsiasi ritorno a una dimensione naturale, selvaggia. I bambini sanno tutto dei leoni visti nei documentari inglesi, ma se vedono un tacchino non lo riconoscono, per loro il tacchino è una fetta rosa». Per quanto riguarda i cuccioli d’uomo, continua Alleva, «già Konrad Lorenz aveva notato che tra le caratteristiche di certi animali, come i mammiferi, c’è una specie di algoritmo, un sistema che elabora informazioni che permettono di inquadrare come cucciolo anche l’esemplare di
L’etologo
Alleva: «Le nostre vite metropolitane ci fanno apparire mitico ogni ritorno alla natura»