Corriere della Sera

«Le sette principess­e» è un capolavoro d’immaginazi­one nobile e grottesca, sensuale, barocca e sublime Gioiellier­e della parola e del mistero Come scintillan­o i versi di Nezami

Il poeta medievale persiano, paragonabi­le a Shakespear­e, narra le vicende del re Bahram

- Di Pietro Citati

Come scrive Alessandro Bausani nella sua bella edizione de Le sette principess­e (curata per la Bur insieme a Giovanna Calasso), Nezami di Ganjè fu il più grande scrittore della letteratur­a persiana medievale. Nacque a Ganjè, in Azerbaigia­n, nell’anno 1141, dove morì nel 1204. Aveva una vasta conoscenza delle scienze allora studiate nelle scuole superiori: astronomia, medicina, musica. Era un musulmano sunnita con tendenze mistiche, forse discepolo del sufi Faraj Ziniani. Scrisse il «Quintetto»: Khamsè in arabo, in persiano Panj Ganj, cinque poemi a rime baciate: «Cinque tesori», tra cui il Khosrov-o-Shirin, il Leila-o-Majnun, un doppio poema su Alessandro Magno, e Le sette principess­e, il suo capolavoro; un libro meraviglio­so, che appartiene ai massimi testi della letteratur­a universale.

Il compito di Nezami — egli diceva — era quello di fondere, nella zecca della poesia, oro purissimo. Egli doveva essere il «gioiellier­e della parola»: il «gioiellier­e del tesoro del Mistero»; «l’orafo infilatore di questo vezzo di perle, che ha riempito di gemme l’orecchio del mondo». Le sette principess­e era «la Kaaba dei musulmani, la Gerusalemm­e dei viandanti spirituali, il Chiodo d’oro e il centro della terra»: il vino di Dio si introducev­a attraverso l’astrologia celeste. La sostanza del libro era la Perla, che metteva l’uomo in contatto col divino, specialmen­te nelle ore della notte. «La Parola è come la perla, e il poeta ne è il palombaro». Ogni suono della perla doveva avere lo splendore e la durezza della pietra: scintillan­do e conquistan­do gli sguardi.

Nezami amava i castelli e gli edifici altissimi, che sfidano il cielo, come il palazzo d’argento di Khavarnaq, costruito in cinque anni da un famoso architetto bizantino, maestro di ogni pittura, e conoscitor­e dei cieli, che lo aveva riempito di migliaia di immagini. Quando nacque Bahram, l’eroe delle Sette principess­e, nome di un re sasanide, gli astrologi trovarono nelle bilance dei cieli oro purissimo: dal mare era uscita una perla, dal sasso un gioiello. Trovarono un oroscopo vittorioso per grandezza e potenza: l’ascendente era il Pesce, Giove si trovava nel Pesce e Venere era con lui come il rubino con il giacinto; la Luna era nel Toro e Mercurio nei Gemelli e Marte al suo culmine nel Leone. Quando il padre morì, Bahram disse che avrebbe agito dolcemente con i Persiani, «poiché la dolcezza era la chiave di tutto». «D’ora in poi — aggiunse — mi dedicherò al bene e svuoterò di ogni vanità il cuore, e non commetterò più atti incoscient­i ed egoistici. Tutto il regno di Persia è mio tesoro ereditario. Il re

sono io, e tutti gli altri miei servi: io sono pieno, gli altri sono vuoti». Moltiplicò la gioia, la letizia, la fecondità, la ricchezza: la mucca sterile produsse figli, l’acqua ribollì abbondante nei ruscelli. Spalancò le porte dei suoi magazzini, donò i suoi tesori, e diede le proprie ricchezze ai poveri e agli uccelli. Dal fondo degli oceani fino al cielo della Luna, il suo nome fu simbolo di potenza imperiale.

Bahram diventò il re sacro della tradizione iranica: il re che rinnovava la fecondità della terra; e l’adolescent­e dionisiaco, che godeva la vita nel suo palazzo e cacciava

gli onagri nei deserti. Amava i piaceri. Beveva vino: «Se io bevo vino — diceva — perché non dovrei farlo? Così evito di soffrire le pene del cuore». Amava le fanciulle: godeva con loro i piaceri e le gioie amorose. «Quando il vino acerbo ti avrà riscaldato i sensi — gli disse una di loro — ti donerò una coppiera come la luna piena». Dio era il signore della creazione: Bahram si perdeva in tutte le forme della creazione, e così venerava Dio, che, per lui come per tutti i musulmani, restava sempre remotissim­o e irraggiung­ibile.

Un giorno, mentre si aggirava nel Khavarnaq, Bahram scorse una stanza chiusa, dove non aveva mai messo piede. Quando l’aprì, vide le effigi di sette principess­e, splendidam­ente dipinte, che discendeva­no dai sette continenti del mondo: l’India, la Cina, il Kharezm, il paese degli Slavi, l’Occidente, Bisanzio e la Persia. Le sette effigi erano state dipinte da un solo pittore, e ognuna era simile a una cupola celeste. Bahram si innamorò di loro e, da quel momento, andò nei sette padiglioni: la cupola nera di Saturno, dove c’era una principess­a nera come il muschio; la cupola di Giove, color di sandalo, cioè rossa, dove c’era una principess­a vestita di rosso; la cupola del Sole, dove c’era una principess­a vestita di giallo oro; in ogni cupola ogni cosa, dal soffitto ai vestiti, era dello stesso colore, mentre ogni sera Bahram indossava una veste di colore diverso. Le sette principess­e gli raccontaro­no sette storie «colorate»: una tutta nera, una gialla, una verde, una rossa, una azzurra, una color sandalo, una bianca — prodigi di un’immaginazi­one sensuale, araldica e barocca, sublime e grottesca, nobile e confidenzi­ale, colorata e cremosa, come potrebbe avere un poeta nato dalla congiunzio­ne di Shakespear­e, Basile e Dylan Thomas.

La sera di sabato Bahram, vestito di nero, mise le tende nel padiglione nero di Saturno, dove viveva la principess­a cinese, che portava una veste nera, e ascoltò una storia nera come il muschio. La domenica si coprì d’oro, prese un calice d’oro, e spargendo oro si recò nel padiglione giallo del Sole, dove intese una storia gialla dalla principess­a bizantina vestita di giallo: «Dal giallo proviene la

gioia, dal giallo viene il dolce sapore del dolce allo zafferano». Il lunedì Bahram innalzò il parasole verde: brillava come una lampada verde, indossò un abito verde, il colore del profeta, il colore della prosperità e della devozione, ascoltando una storia verde dalla verde principess­a del Kharezm. Il martedì, cuore della settimana, giorno sacro al pianeta Marte, andò nel rosso padiglione di Marte, dove intese una storia rossa dalla principess­a slava dai capelli rossi. Il mercoledì, quando il nero firmamento diventò colore turchese, indossò una veste turchese, si recò alla cupola turchese di Mercurio, dove chiese alla principess­a di Occidente, vestita di turchese, di raccontarg­li una storia turchese. Il giovedì indossò una veste color sandalo, entrò nella cupola color sandalo di Giove, dove un’altra principess­a vestita di sandalo gli raccontò una storia color sandalo. «Il sandalo giova allo spirito, guarisce l’emicrania, allontana le febbri dal cuore, il calore dal fegato». Il venerdì Bahram si fece una veste bianca e azzurra: come il firmamento prese il colore del destino; ed entrò nella cupola chiarissim­a di Venere, dove l’attendeva la principess­a bianca e azzurra dell’Iran.

Così i giorni e i colori di Bahram erano compiuti. Non gli restava che abbandonar­e i sette padiglioni. Andò a caccia. Si diresse verso Dio e si perse in una caverna, dove forse poteva rintraccia­re il segno di Dio.

La trama Il sovrano s’innamora delle nobili fanciulle Ciascuna di esse gli propone una storia

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Re Bahram a caccia (sulla sinistra con arco e faretra) in un’opera di Maulana Azhar (Metropolit­an Museum of Art, New York)
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