ELEGGIAMO IL PRESIDENTE D’EUROPA
Un leader forte e il richiamo alle radici culturali per dare all’Unione una vera identità politica
Può mai esistere un’Europa politica che non sappia da dove viene e che cosa rappresenta? Che non sia consapevole della propria identità, e cioè delle proprie radici? Si direbbe di sì se perfino nelle tante analisi suscitate dall’anniversario dei Trattati di Roma non vi è stato alcun richiamo a uno di questi temi. E invece noi siamo convinti che chi vuole un’Europa politica proprio di ciò debba innanzi tutto parlare: di radici storicoculturali, di identità.
Chi immagina un soggetto politico privo di una propria identità storicoculturale e/o ignaro di essa immagina, infatti, qualcosa che non è mai esistito. Principalmente per una ragione. Se la politica è quella particolare sfera in cui ogni società colloca l’organizzazione del potere a cui riconosce la legittima capacità di decidere (e quindi di farsi obbedire), nonché i meccanismi volti a designare chi di quel potere possa essere titolare, se la politica è questo, allora si capisce che tra essa e l’identità storico-culturale della società — cioè i valori, la storia e le tradizioni di questa, gli abiti di vita e di pensiero che ne sono scaturiti — debba esserci per forza un profondo legame vitale. Un legame che comuni interessi economici o condivise regole giuridiche non bastano ad assicurare perché non in grado di suscitare quel senso di appartenenza, quel sentire aperto alle emozioni e al simbolico, quella passione dell’azione e dell’intelligenza, che alla fine sono il cuore della politica. Sono per l’appunto le sue radici perché sono le radici del legame sociale.
Di radici, in verità, si parlò nel momento in cui sembrò possibile elaborare una Costituzione europea. Ma dopo il fallimento di quel progetto la questione è stata messa da parte, cancellata. Ne è seguito, non a caso, il totale abbandono del livello politico della discussione sull’Europa, e lo spazio lasciato solo alla dimensione dell’economia, nell’idea che ad essa avrebbe fatto seguito inevitabilmente anche la dimensione della politica.
Fu una valutazione doppiamente sbagliata: tra l’altro perché l’economia ha di per sé una dimensione globale e non continentale; e poi perché, distaccata dalla politica, e tanto più quando investe l’ambito monetario, essa tende più a dividere che a unire, in forza dei differenti interessi in gioco (la lezione dell’euro è sotto gli occhi di tutti).
L’incapacità, ma vorremmo dire la paura, di riconoscere all’Europa un’identità storico-culturale ha molte cause. Innanzi tutto il nostro terribile Novecento, dove proprio in nome dell’identità, ideologica o razziale che fosse, sono stati commessi gli orrori che sappiamo. È come se, uscita complessivamente sconfitta dalla guerra, e spartita di fatto tra America e Russia, l’Europa abbia temuto di rivendicare la ricchezza e la peculiarità di una vicenda che appariva colpevole in blocco. Tale stato di minorità è durato fino a oggi. L’unica via per farci perdonare prima il fascismo e poi il comunismo è parsa a noi europei quella di sbiadire gli elementi costitutivi della nostra storia fino a cancellarli.
Da qui i timori che ancora oggi accompagnano il discorso sulle radici dell’Europa. Ci è sembrato rischioso proclamare ciò che invece è evidente a chiunque guardi alla questione senza pregiudizi. E cioè che l’Europa nel senso storico-culturale del termine, la nostra Europa, nasce dall’incontro e dalla tensione tra la sua radice ebraico-cristiana e quella razionalistico-illuminista — peraltro per tanti aspetti sotterraneamente coincidenti — con il decisivo apporto del diritto romano. Più precisamente, dalla secolarizzazione che l’Illuminismo ha prodotto nei confronti del Cristianesimo, rendendone compatibili i principi con quelli della democrazia. Da dove altro vengono la Dichiarazione d’indipendenza americana e quella del 1789 sui diritti dell’uomo e del cittadino?
Non è un caso se Hegel — in certo senso il massimo teorico di quella particolarissima forma politica europea integralmente laica che è lo Stato nazionale, da lui immaginato come il culmine della vita dello spirito —, proprio Hegel individuasse nella modernità compiuta il farsi mondo del Cristianesimo. Questo è un aspetto spesso trascurato, eppure d’importanza decisiva. Che il maggior filosofo europeo leghi il destino della politica moderna a quello del Cristianesimo segna profondamente la formazione della coscienza occidentale. La stessa analisi di Max Weber sul rapporto tra calvinismo e spirito del capitalismo conferma il significato decisivo che ha avuto la secolarizzazione del Cristianesimo nella costituzione della civiltà contemporanea.
La storia europea è stata anche un formidabile frutto del pensiero, cioè della nostra radice culturale. Nei confronti della politica tale pensiero ha avuto una funzione che può ben dirsi costituente: ne ha prodotto indirettamente le forme e l’ha concettualizzata, ce l’ha fatta intendere e ce ne ha fatto così essere partecipi. Un esempio? Tutto quanto è accaduto nel mondo almeno fino alla seconda metà del Novecento non è comprensibile fuori dal confronto, e anche dal conflitto, tra la concezione di Marx e quella di Weber.
Certo, si è trattato di una storia tutt’altro che irenica, segnata da opacità e violenze, da cui l’Europa, cento anni orsono, ha rischiato di venire a sua volta distrutta. Ma che ha un profilo peculiarissimo e non indegno, di cui non possiamo perdere le tracce, smarrendo in tal modo le coordinate della nostra identità.
Rivendicare tali coordinate non soltanto non collide con l’esigenza di confronto pacifico con altre culture, etnie, religioni — peraltro già largamente presenti tra di noi — ma ne è la condizione. Sappiamo bene che l’Europa è una parte, non il centro del mondo. Ma una parte, se vuole essere tale e dialogare con le altre, deve pure sapersi autodefinire in base ai propri principi costitutivi, di ordine storico e simbolico. D’altro canto, perché sia preso sul serio, il concetto di differenza — oggi giustamente così vivo e presente alla coscienza contemporanea — deve necessariamente pensarsi insieme a quello di identità. Solo un’identità, infatti, può essere «differente» da altre. Viceversa, questa affermazione così ovvia è parsa più volte perdersi a
Complesso d’inferiorità Distrutta dalla guerra e spartita tra America e Urss, l’Europa ha temuto di rivendicare ricchezza e peculiarità della sua vicenda storica
Apporti essenziali Valorizziamo la matrice ebraico-cristiana, ma anche la tradizione greca e latina, senza la quale il continente smarrirebbe la sua stessa anima
favore di un indistinto primato della differenza in quanto tale. Al punto che si è arrivati a sostenere che l’identità dell’Europa consisterebbe nell’«alterità» in sé e per sé. Vale a dire nel rifiuto di ogni identità. Ebbene, se vuole diventare un soggetto politico l’Unione Europea deve abbandonare decisamente questa strada.
Ma a qualificare l’identità dell’Europa non basta certo il riferimento di cui si è detto alla doppia radice ebraico-cristiana e illuministica. È necessario altresì individuare il concreto orizzonte storico, e anche culturale, filosofico, in cui l’incontro-scontro tra l’una e l’altra è prevalentemente avvenuto.
A noi pare che questo incontro-scontro si sia essenzialmente giocato nel rapporto tra latinità e germanesimo. Dove alla prima è capitato di accogliere ed elaborare fin dall’inizio il germe fecondo della cultura greca e il secondo è stato chiamato a misurarsi con la Zivilisation anglofrancese a occidente e con le umbratili profondità del retaggio russo-slavo ad oriente. Ebbene, se l’Europa deve avere un futuro all’altezza del suo passato, tale rapporto va non solo tenuto sempre presente, ma anche, vogliamo dirlo chiaramente, riequilibrato a favore del mondo latino e mediterraneo in genere. Bisogna ammettere, da questo punto di vista, che nell’atteggiamento con cui i tedeschi si rivolgono ai Paesi meridionali — alla Grecia, ma anche all’Italia e alla Spagna, e in qualche caso perfino alla Francia — c’è spesso un tratto di supponen-