L’eccellenza non basta Capire di più le esigenze del pubblico
«Mai vantarsi troppo». Il suggerimento di Pietro Modiano, presidente della Sea, esternato al Piccolo Teatro giovedì scorso in occasione dell’evento Assolombarda di conclusione della presidenza Rocca, può valere anche per il Salone del Mobile. E va interpretato, secondo me, in questo modo: come si può conservare — e incrementare — il vantaggio competitivo di cui godono (ampiamente) oggi Milano e il design italiano? Durante i giorni della fiera se ne è discusso in vari workshop tutti animati dall’idea che il business oggi sia in forte movimento in tutti i settori e la risposta più sbagliata che si possa dare è quella di interpretare il made in Italy in chiave di rendita di posizione. Come se agli stranieri non restasse che capitolare davanti alla Grande bellezza e chiedere subito dopo la sottomissione. Non è così, purtroppo. Il sistema delle imprese italiane dell’arredamento è sicuramente esteso (130 mila addetti e 29 mila aziende), ha un suo modus operandi di assoluta eccellenza, alcune peculiarità non replicabili ma al tempo stesso, per dimensione (ridotta) delle aziende, relativa managerializzazione e debolezza della finanza, non può pensare di sedersi sugli allori. In più la tradizione imprenditoriale italiana — non solo di questo settore — è portata da sempre a sottolineare quasi esclusivamente l’importanza dei fattori a monte: le fabbriche, i processi e ovviamente il prodotto. C’è stata però anche molta sottovalutazione dei fattori a valle e infatti alla fine l’Ikea è stata creata dagli scandinavi e non da noi (che avremmo avuto tutte le carte in regola per farlo). Ancora oggi nella comunicazione prevale la fotografia di ciò che sta a monte, le cartelle stampa abbondano di numeri sull’offerta mentre sono assai più scarsi invece gli studi e le elaborazioni sulla domanda. Si dice che nel mondo ci sono 500 milioni di ricchi e dobbiamo solo vendere a loro il nostro design. Troppo poco in termini di costruzione di un percorso. Il consumatore, italiano o straniero che sia, oggi è molto più infedele di prima e meno catalogabile. Il web gli ha messo a disposizione una mole di informazioni a cui prima non aveva accesso e di conseguenza il suo potere si è fortemente allargato. È cresciuto nel frattempo il ruolo degli «specifier», degli intermediari di qualità decisivi nell’influenzare il mercato dei grandi contract e se poi allarghiamo lo sguardo e mettiamo a fuoco lo straordinario potere delle piattaforme digitali di distribuzione il quadro delle discontinuità è completo. E può essere utilizzato per stilare con relativa facilità un’agenda delle cose da fare proprio al fine di conservare quel vantaggio competitivo dell’offerta di cui abbiamo parlato. Tutte queste considerazioni hanno portato a sostenere che l’industria dell’arredamento italiano più che
Oltre la produzione L’industria dell’arredamento italiano deve proporre una più ampia cultura del living
nell’hardware deve migliorare nel software, nella capacità di proporre al mercato una più larga cultura del living e persino di abbinare design e turismo. Qualche accento autocritico si è fatto anche sentire in merito all’iperproduzione di nuovi prodotti. È stato stimato che complessivamente ogni anno ne vengono sfornati 25 mila per un investimento tra i 600 e i 700 milioni in oggetti che difficilmente resteranno sul mercato per più di dieci anni. C’è chi a questo proposito ha parlato di un’ingiustificata frenesia troppo spesso causata dalla volontà di motivare la forza vendita. Infine da più parti è emersa la richiesta (più che condivisibile) di affiancare al momento commerciale rappresentato dal Salone una scadenza di eguale valore internazionale stavolta però di carattere culturale. Obiettivo: ribadire il primato di Milano con l’ampiezza dei 360 gradi.