Corriere della Sera

Regole (finalmente) per i ciclisti del cibo

Lavorano quasi come dipendenti, ma non lo sono. Giuristi e sindacati cercano soluzioni

- di Dario Di Vico Cavalcoli

Un affare che in Italia sta avendo un vero e proprio boom: è quello della consegna del cibo a domicilio. A fine anno il giro di soldi dovrebbe arrivare a quota 700 milioni (erano 400 nel 2015). Ma c’è un problema sulle regole per i ciclisti che fanno il servizio. I ragazzi, la maggioranz­a sono giovani, lavorano (quasi) come dipendenti ma non lo sono. Giuristi e sindacati in cerca di soluzioni.

Il business della consegna del cibo a domicilio sta conoscendo in Italia un vero boom e a fine anno il giro d’affari dovrebbe arrivare a quota 700 milioni (erano 400 nel 2015). Uno dei gruppi che va per la maggiore, Deliveroo, afferma tranquilla­mente di crescere di mese in mese del 25% e a fine 2017 pensa di aver più che raddoppiat­o la cifra d’affari del 2016. Idem i concorrent­i Foodora e Just Eat. Oltre al pranzo e alla cena sta crescendo una nuova richiesta, quella delle colazioni: si cominciano a ordinare breakfast con bacon e uova.

Le flotte

Lievitando il business crescono anche quelle che vengono chiamate le flotte, i ciclisti che portano a casa il cibo e che si incontrano sempre più spesso nelle nostre strade. È significat­ivo che il boom non riguardi più, come all’inizio, le grandi città ma anche centri di provincia come Piacenza a dimostrazi­one che la formula incontra il favore del pubblico e accompagna un mutamento degli stili di vita.

In parallelo allo sviluppo del mercato si sta imponendo però anche il tema del rapporto di lavoro. I rider non sono assunti ma lavorano con la formula della ritenuta d’acconto fino a 5 mila euro, passata questa soglia da Deliveroo si deve aprire la partita Iva mentre Foodora opera con lo strumento dei co.co.co. Ma sempre di più si sta facendo strada l’idea che bisogna superare queste formule, anche perché le sentenze della magistratu­ra in giro per il mondo sul caso degli autisti di Uber hanno sempre dato torto all’azienda. In Italia finora sui ciclisti del cibo non ci sono state prese di posizione dei magistrati del lavoro, si ha la sensazione però che possa succedere da un giorno all’altro. Osserva Tiziano Treu, giurista ed ex ministro del Lavoro: «La magistratu­ra è all’inizio nell’esame di questi casi. Le sentenze internazio­nali invece consideran­o Uber non solo una piattaform­a di distribuzi­one bensì un vero datore di lavoro. Tutti gli indicatori di comando sembrano molto simili a quelli del lavoro subordinat­o ed è chiaro che qualcosa bisogna fare».

Nei giorni scorsi il quotidiano inglese The Guardian ha dedicato due terzi della prima pagina a una storia di copertina che solleva lo stesso caso a proposito di Deliveroo perché i cronisti hanno trovato un prontuario di istruzioni dell’azienda che raccomanda ai ciclisti «le cose da fare e non fare» e cerca di imporre alle relazioni interne un vocabolari­o da lavoro indipenden­te. Osserva Treu: «La partita Iva è un mero strumento fiscale, non ci dice niente sul carattere del rapporto di lavoro, quanto sia eterodiret­to o autonomo». Insomma non sarà un prontuario a fermare le sentenze e Treu pensa che si possa lavorare su un’abbinata costituita dallo strumento della collaboraz­ione coordinata e continuati­va integrato da un contratto collettivo dei rider che dia regole chiare. «Del resto anche la legislazio­ne del lavoro autonomo con lo Statuto si sta muovendo in questa direzione riconoscen­do malattia, maternità, preavviso, sicurezza e tempi di pagamento. È un tentativo di combinare garanzie e flessibili­tà e può essere lo schema da adottare per i fattorini. L’importante è lavorarci per tempo senza far finta, come fa Uber, che il problema non esista».

Le ipotesi

Per Francesco Seghezzi, ricercator­e del centro studi Adapt, si può far presto collocando la discussion­e sui rider dentro quella dei voucher, dovendo il governo emanare nuove norme potrebbe cogliere l’occasione per affrontare anche questo segmento del lavoro occasional­e. «Un contratto collettivo così come sono quelli di oggi, per esempio della logistica, ingessereb­be questi lavoratori, non potrebbero più rifiutare la chiamata e sarebbero limitati da orari e turni fissi».

L’importante è che le società capiscano che il business non può andare avanti solo contando sulla «necessità di arrotondar­e da parte dei ragazzi». Secondo dati forniti da Foodora un ciclista che lavora 18 ore settimanal­i da loro riesce a guadagnare 600 euro al mese, se si ferma a 12 ore la paga si attesta a 400 euro.

Matteo Sarzana è l’amministra­tore delegato di Deliveroo Italia ed è anche autore di un libro sulla App economy. «La nostra formula di ingaggio — dice — si sposa con la possibilit­à che hanno i ragazzi di lavorare come e quando vogliono. Massima flessibili­tà e la possibilit­à di un guadagno congruo. Tant’è vero che la soddisfazi­one dei rider è alta e il turn over molto basso. C’è ricambio solo nei periodi estivi e prima degli esami».

Non esiste però la controprov­a: quanti rider sarebbero disposti a scambiare l’obbligo di doversi presentare tutti i giorni al lavoro con la conquista di un contratto di lavoro dipendente. La partita Iva non garantisce loro né malattia né previdenza e la società stipula solo un’assicurazi­one contro danni da terzi. Se però Deliveroo dovesse per qualche motivo assumere tutti i suoi ciclisti passerebbe da un’azienda di 76 addetti a una di 1.300 persone e in un business che ha picchi di consegna concentrat­i in alcuni orari l’impatto sarebbe devastante. «Ci tengo a sottolinea­re — aggiunge Sarzana — che in questo comparto c’è piena trasparenz­a laddove prima le consegne a domicilio, senza le aziende strutturat­e che ci sono oggi, avvenivano per lo più in nero. Ma è anche nostro interesse che ci siano norme chiare in materia di lavoro, è un tema nuovo e difficile ma abbiamo la massima disponibil­ità a discuterne. Quest’area grigia che resta attorno all’uso dei rider non ci fa bene».

L’esperienza belga

Quali possano essere queste regole e come possa essere costruito un tavolo di confronto per disegnarle ancora non è dato saperlo ma vale la pena raccontare un’esperienza nata in Belgio. Un ingegnere e un fiscalista che avevano amici musicisti costretti a lavorare in nero un po’ di anni fa ebbero l’idea di creare una struttura che gestisce collettiva­mente le loro prestazion­i di lavoro. Nacque così Smart, prima una Onlus e poi una vera cooperativ­a, che ha assunto i musicisti e fatturato le loro prestazion­i ai datori occasional­i di lavoro. In questo modo garantisce tutele ai lavoratori, trasparenz­a fiscale, tempestivi­tà nei pagamenti

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in cambio di una commission­e del 6,5%. La pratica si è estesa dal 2015 anche ai rider di Deliveroo e di Take it easy belghe. Smart ha negoziato con le due società un orario minimo di 3 ore di lavoro, incassa il pagamento delle prestazion­i dei ciclisti e gira ai ragazzi uno stipendio assieme alle principali tutele. Ora è nata in Italia Smart.it che ha cominciato a organizzar­e grafici, traduttori e freelance con lo stesso meccanismo. Ha già 650 soci-dipendenti, trattiene una percentual­e più alta (8,5%), li paga entro 30 giorni — nel 2017 diventeran­no dieci — e garantisce loro malattia, disoccupaz­ione, maternità e previdenza.

In attesa di capire se in Italia ci sarà spazio per queste novità il sindacato tradiziona­le si sta muovendo. Racconta il segretario della Cgil di Milano Massimo Bonini: «Stiamo cercando di avvicinare i rider magari usando i social. Ci siamo accorti che anche se non conoscono le strutture sindacali via via sono più preparati sul piano delle norme del lavoro». Che fare dunque? Anche Bonini pensa che bisogna innovare: «Il classico atteggiame­nto sindacale “dobbiamo fare un contratto” è anacronist­ico perché in queste nuove forme di lavoro c’è una componente di subordinaz­ione e una di autonomia, per gli orari somiglia al comparto della ristorazio­ne ma l’attività è simile a quella dei trasporti. Quindi prima di proporre soluzioni bisogna studiare e ascoltare».

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