L’angoscia a casa Il padre: non è solo un fatto privato
E dalla sua Lucca parte la mobilitazione
«In mattinata sarò a Roma. Andrò alla Farnesina e all’ambasciata della Turchia: questa storia deve terminare. Io non lascio mio figlio solo. Gabriele deve essere rimandato in Italia». Massimo Del Grande, il padre del documentarista trattenuto dalle autorità turche, senza un’accusa precisa, non ci sta ad attendere oltre.
La delusione dell’ultimo tentativo diplomatico fallito, fa traboccare il vaso della pazienza: «Non li hanno fatti nemmeno entrare. Tante rassicurazioni. Tante parole. Ma ora basta», dice a sera, al telefono. «Il viceconsole italiano e l’avvocato che erano andati in questo centro dove viene tenuto Gabriele, per visitarlo e potergli almeno parlare — spiega — non sono stati fatti neanche accedere alla struttura». Un centro a Mugla, da dove Gabriele due giorni fa è riuscito a telefonare alla moglie, Alexandra, e a chiedere aiuto. «Approfittando del fatto che conosce molto bene l’arabo, che ha imparato dall’università a Bologna, ha insistito finché non l’hanno lasciato chiamare. Ha detto che sta bene, che non gli è stato fatto del male, ma che non lo lasciano andare via e da martedì ha iniziato uno sciopero della fame», racconta Massimo, ristoratore assieme alla moglie Sara che è accanto a lui, in attesa, spasmodica, della notizia del rilascio. In casa le sorelle più piccole di Gabriele, unico maschio di sei figli. «Dicono che è in un centro di espulsione. Ma è in cella di isolamento. Allora? — sbotta il papà —. Se lo devono espellere perché non lo fanno? ».
La generica motivazione del fermo è quella di «sicurezza dello Stato». «Infatti è stato interrogato tutti i giorni. Ma lui — protesta Massimo — stava lavorando. Prendeva notizie per il suo libro. Non è solo un fatto privato di un padre di due bambini di 3 e 4 anni. Ma è un problema che purtroppo riguarda molti sui quali forse abbiamo posto poca attenzione». Ora l’attenzione c’è. L’ha chiesta Gabriele dal suo luogo di detenzione. E l’ha ottenuta. Non solo a Lucca, dove ieri si è svolta una lunga fiaccolata. Cento autori televisivi hanno firmato un appello «Liberate Gabriele» chiedendo ad autorità italiane e turche di «accelerarne il rilascio». Iniziative sono sorte da Torino a Palermo. E su Twitter sono intervenuti da molti Paesi al di qua e al di là del Mediterraneo. Da 10 anni Gabriele si occupa di migranti. E il suo documentario Io sto con la sposa, che segue un gruppo di profughi palestinesi e siriani dall’Italia alla Svezia, premiato anche a Venezia, è un cult. La moglie Alexandra, le notizie, ieri le dava su quella pagina Facebook e su Fortress Europa, l’osservatorio fondato dal blogger su flussi migratori e morti del Mediterraneo. È da lì che Gabriele ha lanciato la raccolta fondi per il libro: «Un partigiano mi disse». «Voglio raccontare la guerra in Siria e la nascita dell’Isis attraverso l’epica della gente comune», aveva annunciato. Materia incandescente nella Turchia di Erdogan.