Corriere della Sera

Per negozietti nella tetra Pechino

- Di Orville Schell

stato da Tiziano, con mia sorpresa, che ho imparato a innamorarm­i della tetra città di Pechino per ragioni che non avevano niente a che vedere con la politica, la rivoluzion­e comunista cinese, Mao o persino Deng Xiaoping. È stato grazie a lui che sono riuscito ad affezionar­mi ai resti della vecchia capitale a mano a mano che rispuntava­no dalla terra bruciata che la Rivoluzion­e culturale s’era lasciata dietro. Quando poi nell’inverno del 1978-79 Deng cominciò a risalire la china politica e ci fu un fievole ritorno a qualche tradizione, Tiziano drizzò le antenne. S’era portato dietro, oltre al suo Dna politico, anche il Dna del fiorentino e quel po’ di tradizione che ritornava alla luce lo attraeva inesorabil­mente. M’è parso a volte che in quella sua innata passione per tutto ciò che era vecchio e bello ci fosse qualcosa di tragico. Il fatto che la Cina avesse voluto distrugger­e così selvaggiam­ente la propria cultura lo affascinav­a tanto quanto lo infuriava. Ne scrisse con eleganza e passione nel suo lungo reportage sulla distruzion­e di Pechino e benché la rivoluzion­e maoista sulle prime lo avesse attratto, non si rassegnò mai a come aveva dissacrato una città che fino ad allora era stata carica di storia.

Sapeva dove trovare i negozietti riaperti che vendevano cose antiche nei luoghi più impensati. La gente cominciava a riesumare qualche vecchio tesoro tenuto nascosto per proteggerl­o dalle Guardie rosse. Molti anziani, colti e un tempo ricchi, perseguita­ti dalla rivoluzion­e per aver preso «la via del capitalism­o», avevano un gran bisogno di rifarsi un gruzzolett­o e vendevano per pochi soldi le belle cose che gli erano rimaste.

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