Irresistibile Truman Capote Gioie e dolori dall’aldilà
Per Truman Capote. Questa cosa chiamata amore di Massimo Sgorbani sembra giusto cominciare dalla fine, quando si parla degli attori. Del monologo, novanta minuti, è interprete Gianluca Ferrato. Lo avevo visto in un altro assolo, nel quale era Charles Aznavour, cantando. Ma già in passato aveva indossato i panni dei cantanti amati in gioventù, Luigi Tenco o Rita Pavone: loro, una sua passione. È forse quanto distraeva l’attenzione da Ferrato come attore di prosa. Eppure ha studiato alla scuola del Piccolo e ha debuttato con registi come Strehler e Giancarlo Cobelli.
L’incontro con Capote si rivela però significativo. Truman è uno spettacolo prodotto da La Pergola di Firenze. La regia di Emanuele Gamba modula in modo sapiente il testo di Sgorbani: con i tagli luce, con le gigantografie, con l’utilizzo dei pochi elementi scenici, un tavolo e otto sedie. Su quel tavolo Ferrato, scatenato, si produce in un piccolo ballo di tip tap. Ma di continuo egli si esibisce, come il protagonista del monologo si suppone (o Sgorbani suppone) facesse. E tuttavia Sgorbani non vuole essere, nei confronti di Truman Capote, riduttivo.
Da subito Truman — che ci parla da un qualche aldilà nel quale ha come interlocutori due suoi personaggi, Marilyn Monroe e Perry Smith, uno dei due assassini di A sangue freddo — da subito Truman, dicevo, accenna alla sua vocetta «stridula e insistente». È la voce di uno che da bambino non è stato amato, e che non è stato amato da adulto, né da Johnny né da Rick, né da nessuno. Anche quando pubblicò il suo primo libro si volle considerare Capote prima «finocchio, poi scrittore» e — come Perry, che non era stato amato, dovette uccidere per attirare l’attenzione — così Truman dovette scrivere per lo stesso motivo. Egli portò a compimento quel grande romanzo proprio per il sentimento di identificazione che Perry aveva in lui suscitato.
La madre era stata sempre assente; la sua omosessualità, una «vergogna sociale». Quando dette quella grande festa in maschera, cinquecento invitati scelti dividendo moglie e marito se uno dei due non gli piaceva ma a cui nessuno volle rinunciare, quella festa per il successo di A sangue freddo gli procurò cinquemila nemici. Era il mio destino, dice Truman; e il tuo, ripete a Marilyn: nessuno ti ha amata, ecco perché hai scelto di morire. Ed ecco, allora, le foto di John Fitzgerald e di Robert Kennedy morti, e subito dopo quella di un vietcong, scattata nel momento in cui gli viene puntata la pistola contro la tempia un attimo prima che parta il colpo.
Forse, dice Truman, si spara a chi si è idolatrato, chi non potremo mai essere. Dopo il male se ne va, dopo ci sono le feste, i riti celebrativi, c’è il party dell’immortalità: quel povero vietcong comunista vi fu convocato, ma lui ignorava di avere un destino futuro. A tutto ciò, a questo vertiginoso monologo, Ferrato dà vita e irresistibile vitalità, con continui cambi di velocità, con alterazioni della voce e spostamenti repentini, con contagioso ardore.