Il sospetto di una rivalsa dopo un’ostilità crescente
Raffaele Cantone era la bacchetta magica per affrontare ogni genere di pasticciaccio che la politica non riusciva a sbrogliare. Le rogne del Mose di Venezia. I guai dell’Expo 2015. Gli scandali delle banche. I lavori del Giubileo straordinario. I controlli sul nuovo codice dei lavori pubblici. Gli appalti del terremoto. E perfino le vicende delle gare Consip, con il loro strascico purulento. Non gli era stata risparmiata neppure la sconcertante storia delle nomine al Comune di Roma. Nei panni di presidente dell’autorità nazionale Anticorruzione Cantone si era trovato dunque investito nel ruolo di salvatore della Patria. Suo malgrado, trattandosi di una parte tanto comoda per una classe dirigente politica specializzata nello scarico delle responsabilità, quanto scomoda per il magistrato che improvvisamente si trovava quel peso crescente sulle spalle. Siccome però l’uomo non veniva da Marte, impossibile dire che non fosse consapevole delle difficoltà conseguenti. E nemmeno del rischio di andare incontro a una crisi di rigetto di certi apparati burocratici solo apparentemente intimiditi dalla nascita di una Anticorruzione non di facciata. Ossia quelli che non hanno mai digerito l’eventualità di essere espropriati di poteri fino a quel momento insindacabili. Le avvisaglie non erano certo mancate. Per mesi Cantone aveva segnalato a Palazzo Chigi come a causa di una regola assurda la sua autorità non potesse utilizzare i denari risparmiati e messi da parte, nonostante non si trattasse neanche di soldi pubblici (l’Anac è finanziata dai soggetti controllati): con il risultato di non avere le risorse necessarie per assolvere compiti sempre più gravosi. Per mesi aveva ricevuto soltanto promesse. Con la penosa situazione che alfine si era sbloccata, ma fra gli «uffa» dell’amministrazione. Per non parlare della sorda e crescente insofferenza di un certo mondo politico che ha sempre considerato Cantone, la cui nomina era stata una delle prime mosse di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, alla stregua di una propaggine del premier: tanto da ritrovarsi una sera a cena con lui addirittura alla Casa Bianca. Figuriamoci lo smacco. E quel mondo non vedeva l’ora, archiviato il governo renziano, di spuntargli le unghie. C’è chi sostiene che non c’è nulla di tutto questo: l’intervento è tecnicamente ineccepibile, ed è arduo interpretarlo come una vera limitazione dei poteri dell’Anac. Ma anche il sospetto è difficile da allontanare.