In quel pifferaio (contestato) si nasconde la sfida a Velázquez
«Il povero pifferaio è incollato a un muro immaginario. A Manet proprio non entra in testa che dietro e intorno al corpo del ragazzo possa esserci dell’aria: non va oltre la tecnica del découpage e rende omaggio agli abili fabbricanti di carte. Il pifferaio, divertente specimen di un immaginario ancora rozzo, è un fante di quadri attaccato a una porta come manifesto». Fu spietato il critico Paul Mantz. Il
Édouard si era già misurato con Raffaello e Tiziano. Scegliendo la «hispanidad» va oltre
suo giudizio su «Il pifferaio», espresso un anno dopo la morte di Manet in occasione della retrospettiva organizzata nel 1884 all’École des BeauxArts, non lasciava scampo. Eppure erano già passati diciotto anni da quando il quadro era stato dipinto e altrettanti da quando era stato rifiutato al Salon del 1866. Ma la critica non riusciva ancora ad accorgersi di come quel dipinto disprezzato per la sua audace modernità, in realtà si rifacesse direttamente alla maniera del più grande pittore del Seicento: lo spagnolo Velázquez.
Nel 1865 Manet aveva scoperto la Spagna durante un viaggio memorabile in cui gli si rivelò il pittore per eccellenno za della hispanidad, custodito gelosamente a corte dagli Asburgo per cui tutte le più grandi opere di Velázquez si potevano vedere solo recandosi a Madrid. Per chi si trovava per la prima volta davanti a capolavori come «Las Meninas» o «Las hilanderas» era come venire abbagliati da una rivelazione.
«Quale gioia avreste provato nel vedere Velázquez. Da solo, vale il viaggio. I pittori di tutte le altre scuole, che sono intor- a lui al museo di Madrid, e molto ben rappresentati, sembrano tutti, in confronto a lui, dei rimasticatori. È il pittore dei pittori». Così Manet comunicava l’emozione del suo entusiasmo in una lettera inviata nel 1865 da Madrid all’amico Henri Fantin-Latour. In particolare menzionò il ritratto del buffone Pablo de Valladolid, immortalato in un atteggiamento declamatorio, più da commediante che da giullare.
Faceva parte di una serie di effigi di nani e buffoni che vivevano a corte, alcuni anche idioti, ma tutti indistintamente dipinti da Velàzquez con estremo rispetto, senza scherno né compassione. «L’esempio di pittura più straordinario mai realizzato», lo descrisse Manet, per il fondo della tela che «scompare» e «l’aria che circonda la figura». Manet colse immediatamente l’audacia di quella figura che sembra galleggiare in uno spazio vuoto, neutro, dove non c’è differenza fra pavimento e parete. Un tour de force virtuosistico in cui Velázquez mostra la sua bravura costruendo lo spazio attraverso il solo movimento a chiasmo di braccia e gambe, una avanti l’altro indietro, e una sintetica ombra, stesa con un bruno liquido, dietro i piedi del buffone. Solamente due colori per creare un capolavoro: il nero e il marrone, sfruttati in tutte le possibili tonalità. Un soggetto da niente trattato con la stessa maestría usata per il ritratto di un sovrano. Era un guanto di sfida lanciato ai colleghi che Manet raccoglie con una sola idea: la pittura deve superare la pittura. Non importa il tema. Conta è il piacere dei sensi, la destrezza di mano, l’impasto e la qualità del colore.
Ecco perché definisce Velàzquez «il pittore dei pittori»: perché è un artista che parla ai suoi simili, prima ancora che al pubblico. Così Manet sceglie un ragazzino, un giovane suonatore di piffero dei volteggiatori della guardia imperiale, e prova a ritrarlo come aveva fatto il maestro spagnolo:
La critica fu spietata con questo ritratto Non si accorgeva della sua audacia innovativa
in uno spazio neutro, senza appigli scenici, usando le stesse pennellate ampie, dai tocchi «approssimativi». Un duello: Francia contro Spagna; Ottocento contro Seicento. Manet è un pittore colto, un borghese che ha studiato, viaggiato e visitato i musei italiani. Vuole il suo posto nella storia dell’arte e sa che per conquistarlo bisogna competere con i grandi. Lo aveva già fatto con l’«Olympia» sfidando la Venere di Tiziano vista agli Uffizi, e con «Le Déjeuner sur l’herbe» dove si era misurato con Raffaello. Ora toccava a Velázquez, il «pittore dei pittori», colui davanti al quale tutti si erano inchinati, anche gli italiani.
Coraggio
L’accoglienza