L’impronta sabauda e l’etica calvinista unite in questa Juve sempre affamata
La Juventus è arrivata nelle semifinali di Champions League incassando in tutta la competizione soltanto due gol. Il Barcellona, così prodigo di reti, con l’attacco più forte del mondo, con quei tre lì davanti che sembrano di un altro pianeta, non ne ha messa a segno nemmeno una in due partite con i bianconeri. La ricetta di questa Juve forte e vincente è la saldezza di nervi, la solidità, la concretezza. Soprattutto una difesa d’acciaio. Solo che nella difesa d’acciaio vanno incluse anche le punte che, in quattro, partecipano al coro con una dedizione e una tecnica davvero invidiabili. E soprattutto con uno spirito di sacrificio che è sempre l’ingrediente indispensabile delle storie di successo che
Bravura e tanto lavoro
abbiamo conosciuto nel cinema e nella letteratura. Spirito di sacrificio significa tante cose. Una disciplina militare che reca in sé un’impronta sabauda ma si accoppia a un ethos quasi calvinista nell’adempimento del proprio lavoro. Per aver derogato a questa disciplina un giocatore straordinario, e che
Una società che ha uno spirito poco affine alla tradizione italiana: ogni successo è fondato su bravura, programmazione e tanto lavoro
sembrava indispensabile, come Vidal è stato invitato a liberare il posto e a mietere successi altrove, ma non a inquinare il clima che dovrebbe regnare in una squadra votata al successo come la nuova Juventus. Eccesso di zelo? Forse, ma le regole da rispettare non ammettono deroghe in questa Juve così costruita per edificare un ciclo che, comunque vada a finire, ha dell’incredibile, soprattutto dopo l’inferno in cui è stata precipitata undici anni fa, che ha rappresentato per la Juventus un nuovo inizio, l’alba di una nuova stagione, una voglia feroce di tornare e vincere, e a stravincere. Poi c’è una dedizione totale al lavoro, un’attenzione spasmodica ai particolari, una serietà che non ammette soste e