I trent’anni dei Simpson, un mondo geniale contro gli stereotipi
Il 19 aprile 1987, trent’anni fa, per la prima volta andavano in onda i Simpson. Erano microepisodi della durata di due minuti all’interno del «Tracey Ullman Show». Solo due anni dopo verrà trasmesso il primo vero episodio della famosa serie animata firmata da Matt Groening: «Simpsons Roasting on an Open Fire» (Un Natale da cani).
Trent’anni sono tanti, eppure siamo ancora così partecipi delle vicende dei Simpson, quasi fossero parenti, amici. Il collante che ci lega a loro e tiene saldi i rapporti dello sgraziato nucleo è una sorta di amaro sarcasmo, più genetico che consapevole. C’è un padre di 35 anni, Homer, che fa il custode di una centrale nucleare e i cui tratti caratteriali sono la viltà e la grettezza. C’è una madre di 33 anni, Marge, casalinga disperata prima di «Desperate Housewives». E ci sono tre figli: Bart, quarta elementare, falso, imbroglione, egoista, ultimo, inconsapevole erede del ribellismo letterario americano; Lisa, la tenera Lisa di 8 anni, nevrotica, intellettuale, troppo sagace, vanitosetta; Maggie succhiatrice di un ciucciotto da cui ricava un’inquietante colonna sonora.
I Simpson sono unici, e insieme molteplici. Più che semplice specchio deformante della realtà, rappresentano un geniale gioco che usa, svela, distrugge tutti gli stereotipi attraverso cui i media ci hanno raccontato il mondo. I Simpson creano un loro universo coerente e complesso, e allo stesso tempo citano la tv, il cinema, la letteratura, la cultura pop e perfino se stessi. I frammenti s’incastrano gli uni con gli altri e si rimandano all’infinito, illuminando di altri significati la vicenda raccontata.
La genialità dei Simpson sta proprio nel continuo rinvio ad altri universi apparentemente più colti, persino alla politica (e se The Donald fosse una loro creatura?). I Simpson siamo noi, quando assorbiamo il bene e il male del mondo e lo trasformiamo in routine quotidiana.