Corriere della Sera

Manine e manone Quella voglia di elezioni anticipate

Dall’elezione di Torrisi al caso Anac, il fuoco amico sul premier

- di Francesco Verderami

Quelli del «voto subito» non hanno concesso a Gentiloni nemmeno la luna di miele, che pure è il benefit garantito a ogni presidente del Consiglio per i suoi primi cento giorni a Palazzo Chigi. Figurarsi se vogliono vederlo durare fino al termine naturale della legislatur­a.

Per quanto sia un loro compagno di partito, c’è una causa superiore che impone il suo sacrificio. Ed è per questo che manine e manone sono instancabi­lmente all’opera per tenere in fibrillazi­one il sistema, in attesa che Renzi torni a essere segretario, con la speranza che si rimpossess­i del primato. Più si avvicina il voto delle primarie del Pd, più si parla del voto in autunno, più gli incidenti nel Palazzo si susseguono: a volte frutto di operazioni intenziona­li, a volte conseguenz­a di imperizie. Ma tutto è funzionale, perché tutto può far brodo.

Il «caso Anac» è (per ora) l’ultimo in una già lunga lista. Gentiloni, che osserva ogni manovra senza reagire, questo passo falso se lo sarebbe risparmiat­o. D’altronde a gestire il decreto incriminat­o c’era la Boschi, sottosegre­tario di stretta osservanza renziana alla quale sono state assegnate quasi due pagine di deleghe di «coordiname­nto, valutazion­e, impulso, monitoragg­io e verifica» di quasi tutte le funzioni della presidenza del Consiglio. Una manina però ha sbianchett­ato le competenze di Cantone, che era in freddo con l’ex premier, e che grazie al patatrac non solo potrà riavere ciò che gli era stato tolto ma potrà anche avere ciò che non gli era stato concesso. La picconata non farà cadere l’edificio traballant­e della legislatur­a, ma contribuir­à a far dichiarare l’edificio inagibile quando sarà il momento.

I colpi di piccone

Una mano in tal senso l’aveva data due settimane fa l’elezione del centrista Torrisi alla presidenza della commission­e Affari costituzio­nali del Senato. «È stata un’imboscata», denunciaro­no quel giorno gli uomini di Renzi, per quanto si sapesse come sarebbe andata a finire quella votazione. Ce n’è traccia nel dialogo tra il capogruppo del Pd Zanda e il suo collega forzista Romani, che sono poi i capi di una sorta di comitato per la salvaguard­ia della legislatur­a: i due si sentono quasi ogni mattina per scongiurar­e che in Aula qualcosa vada storto. «Oggi votiamo per la presidenza della commission­e», annunciò Zanda. «Evitiamo», gli rispose Romani: «Il vostro candidato non ha i numeri». «Votiamo, me lo chiede il partito».

Perciò non si capì lo stupore con cui «il partito» fu colto dall’evento. O meglio fu così chiaro che Alfano, accusato di essere l’autore del tradimento, lo denunciò pubblicame­nte: «Se il Pd vuole andare alle elezioni anticipate, lo dica». Troppo presto, prima ci sono le primarie. Intanto, giusto per restare in allenament­o, si è passati ad usare i ministri tecnici come punching-ball. Per settimane Padoan è stato preso di mira sulla manovrina da Orfini che gli ha spiegato chi prende le decisioni in assenza di Renzi da Palazzo Chigi: «Certo, quando stava al governo il segretario del Pd era invece sufficient­e che lui parlasse con se stesso»...

«Il santuario»

Il culto della personalit­à coincide con la causa. Infatti quando «il partito» seppe che Franceschi­ni aveva esortato Calenda a fare il leader dell’area di centro, Calenda finì al centro della rappresagl­ia: «Potrebbe essere un buon leader del centrodest­ra, visto che ne cercano uno», disse Renzi per avvisarlo di togliersi dalla testa l’idea di poter fare il premier delle larghe intese nella prossima legislatur­a. Il titolare dello Sviluppo economico, già reo di aver sconsiglia­to il voto anticipato a giugno, consigliò a se stesso una replica senza spigoli: «Mica cado nelle provocazio­ni di quelli». Che nel frattempo gli hanno però bloccato al Senato il ddl Concorrenz­a.

Perché quelli del «voto subito», incuranti del fuoco amico su Gentiloni, non hanno remore verso nessun esponente del governo. O quasi. Il ministro degli Interni gode in effetti di una procura speciale, di una forma d’attenzione particolar­e: su Minniti c’è una sorta di «non possumus» che lo rende invulnerab­ile, addirittur­a innominabi­le. Tanto che al partito non lo citano per nome ma lo chiamano «il santuario». E Renzi, che ieri si trovava nella zona dove da tempo si dà la caccia al killer Igor il serbo, ha voluto dire «grazie alle forze dell’ordine che fanno un lavoro di grande livello».

Il segreto disvelato

Sono altri i fronti in cui operano le manine. E da giovedì c’è anche una manona: quella del renziano Fiano, che alla Camera ha rotto gli indugi sulla legge elettorale avanzando una proposta capace di mandare in bestia in un colpo solo centristi, scissionis­ti e forzisti. È evidente il tentativo di farsi dire di no per far saltare il banco e certificar­e che non c’è possibilit­à di intesa in questo Parlamento. Ma gli altri hanno fatto finta di dire sì alla trattativa, così da prendere tempo. Perché il segreto di quelli del «voto subito» è il segreto più noto d’Italia.

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