DOPO LE URNE SI DELINEA UN PARLAMENTO DI MINORANZE
Èverosimile che le elezioni riconsegneranno un Parlamento di minoranze. Piccole o grandi, ma comunque non in grado di esprimere un governo con numeri sufficienti a garantire la stabilità. E probabilmente la riforma elettorale che prenderà corpo rifletterà questa incapacità di amalgamare un sistema politico frantumato. Ognuno per sé, e contro tutti gli altri. È come se lo schema di Beppe Grillo avesse fatto scuola; o comunque tendesse a prevalere nonostante gli sforzi di cementare alleanze. Gli indizi di questa scelta autarchica arrivano soprattutto da sinistra. E promettono una riforma del voto in extremis e al ribasso.
La scelta del Pd di escludere premi a una coalizione, optando per quello alla lista, significa due cose. La prima è che Matteo Renzi vuole plasmare un partito a propria immagine. Chi vuole aderire, lo farà sapendo che il leader è lui. D’altronde, quando avverte che non permetterà che «si spari sul conducente» dall’interno, manda un segnale chiaro agli oppositori: non tollererà attacchi come quelli che alla fine hanno portato alla scissione. L’altra conseguenza sarà la creazione di una «seconda sinistra», non limitata agli scissionisti di Articolo 1-Mdp.
Si sta delineando un’area che fa capo all’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia; e che può diventare la calamita di tutta la sinistra non renziana. Un «listone» che per il momento è una nebulosa, ma potrebbe diventare qualcosa di diverso: soprattutto se dopo le primarie del Pd e le Comunali di giugno continuassero le tensioni. Si captano già gli indizi di una competizione destinata a incattivirsi; e incline a dividere la sinistra quando, dopo le elezioni, si dovrà decidere con chi allearsi.
Almeno per ora, lo stesso centrodestra prova a rimettere insieme Lega Nord e FI. Sul piano locale la prospettiva di battere gli avversari fa miracoli, riavvicinando il partito di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi. Ma leadership e identità politica costituiscono ostacoli ingombranti. È vero che FI e Carroccio criticano entrambi l’Ue. In maniera diversa, però, con una Lega che punta sullo sfascio in sintonia con la destra francese di Marine Le Pen. Berlusconi, invece, anche tramite il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, azzarda la ricucitura col Ppe.
Le strade potrebbero divergere anche in Italia. Quando i governatori leghisti di Lombardia e Veneto, Maroni e Zaia, fissano un referendum consultivo «per l’autonomia» da Roma, ritornano al passato. È il rigurgito di un’antica voglia di separatezza. Il referendum è solo un’arma di pressione, perché richiederà passaggi complicati in Parlamento. Ma produce confusione: perfino il sindaco di Milano, il dem Giuseppe Sala, annuncia che voterebbe sì, «se si farà». Può darsi che queste pulsioni alla fine evaporino. Per ora, però, immergono l’Italia in una transizione dai contorni patologici.
Gli schieramenti A sinistra si delineano due liste con Renzi e Pisapia leader Il referendum della Lega semina confusione non solo a destra