Corriere della Sera

I 15 minatori italiani uccisi dal gas L’altra Marcinelle dimenticat­a

«L’ho tirato verso di me, era già morto». In un libro l’unico superstite racconta la strage in galleria

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dell’acqua e verso l’una riesce a dare l’allarme.

Cos’era successo? Ferrari ricostruis­ce bene la dinamica degli eventi. Le infiltrazi­oni d’acqua, che impedivano di lavorare all’asciutto dentro i cunicoli, imponevano continui svuotament­i della galleria con il pericolo rappresent­ato dalla presenza di gas, un’«ariàscia» che esalava dalle profondità. L’operazione avrebbe spinto i minatori oltre una porta di legno, dove l’ossigeno cominciava a mancare e l’acqua continuava a salire. I primi morti sono, già nel pomeriggio, i due pompieri e il minatore Falconi e mentre da un capo della galleria i soccorrito­ri e i sommozzato­ri erano già all’opera, dall’altro l’allarme non era ancora arrivato, non si sapeva del gas e non si sapeva dei morti. Insomma, i lavori ripresero come sempre e altri Il libro La strage è raccontata da Erminio Ferrari nel libro Cielo di stelle. Robiei, 15 febbraio 1966 (Edizioni Casagrande) che sarà presentato oggi a Milano a Tempo di libri. A sinistra, operai evacuati dal cantiere di Robiei dopo la tragedia (Keystone); sopra, la notizia sul «Corriere» del 17/2/1966 operai, ignari, andarono incontro alla morte per asfissia.

Nei giorni successivi all’incidente, si cercò un capro espiatorio: era il capo-minatore Vittorio Chenet, detto «Kennedy». Era lui che aveva aperto la porta stagna oltre la quale c’era l’«aria cattiva». Ma: «Il gas, nessuno ci aveva avvertiti del gas», ripeteva l’operaio Mario Chivilò. Il bellunese Chenet aveva cinquant’anni, aveva tre figlie (rimaste al paese), era un vecchio lupo di miniera e se avesse saputo del gas non si sarebbe addentrato.

Il bergamasco Luigi Ranza è

stato trovato morto con la sigaretta tra le dita, aveva 39 anni, era su uno dei vagoncini che stavano uscendo dalla galleria per portare in mensa i minatori: i soccorrito­ri l’hanno trovato seduto, composto, accanto ad altri compagni, compresi il diciannove­nne valtelline­se Enrico Barilani, il «caposciolt­a» Silvio Maglia, chino sulla leva della motrice. Il libro racconta il viaggiare dell’autore (l’io narrante) nei luoghi e tra sopravviss­uti, vedove, orfani.

Va a trovare i testimoni e li ascolta: «Così li abbiamo tirati fuori, li abbiamo posati sul trenino e siamo usciti dalla galleria», ricorda il soccorrito­re Emilio Bianchetti. È lui che ha trovato Chenet, accasciato accanto alla porta. Ferrari non dimentica il contesto, il prima e il dopo, comprese le iniziative di James Schwarzenb­ach contro l’«inforestie­rimento». Spiega che cos’era l’«anemia del Gottardo», l’infezione derivata dalle spaventose condizioni igieniche in cui lavoravano i minatori. Evoca le parole dello scrittore ticinese Plinio Martini a proposito dei lavoratori italiani che arrivavano in Svizzera: «Vengono qui a scavarci le gallerie, a costruirci le strade e le case, a fare quei lavori che oggi noi, troppo ricchi, disdegniam­o».

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