La storia non si ripete ma le fratture restano
Caro Aldo, il pericolo del nucleare ha portato l’Intelligence americana a riflettere sulla guerra in Corea degli anni 50. Allora, dopo un blitz militare indovinato si risolse il conflitto politicamente evitando l’uso dell’atomica. Oggi Donald Trump intende procedere con la medesima strategia, ma come reagirà Kim? È proprio vero che di fronte al pericolo di una guerra nucleare l’alta politica è necessaria come il pane. Francesco Italo Russo
Montecatini Caro Francesco, più che un blitz fu una guerra da almeno 36 mila morti (solo tra gli americani), per difendere un alleato ma anche per dare un avvertimento alla nascente potenza cinese. La storia non si ripete mai due volte; ma le faglie di frattura a volte restano le stesse.
VITA DOPO LA MORTE
«Cosa mi ha insegnato l’esperienza in Africa» Caro Aldo, le scrivo a proposito della lettera del vescovo Camisasca (Corriere, 16 aprile). Parto dalla mia esperienza in Africa. L’anziano vede nella sua famiglia, figli, nipoti, nuore, la vita che si estende a tempo indefinito. Questo perché per l’africano il centro della vita sta nella natura, intesa nel suo significato più inclusivo, in cui ogni soggetto si inserisce facendosi coautore di questa evoluzione universale che è la sola realtà vivente e in cui si incastona perfettamente l’idea di Dio e gli antenati hanno un ruolo privilegiato. Ognuno nasce e cresce nella prospettiva e con l’ideale di questa posizione in cui la morte personale si fa evento naturale che non interrompe la vita. La morte è una linea sottile a fianco della quale tu cammini fin dai primi vagiti. Nessuno sdoppiamento fra due vite, terrena e ultraterrena. Se noi cristiani continuiamo a insistere su questa distinzione è perché la dimensione razionale è ancora largamente prevalente su quella mistica. Se vediamo Dio in ognuno che incontriamo, studiamo il suo disegno nella storia e lo sentiamo nel profondo del nostro essere forse la realtà ultraterrena non è estranea a questa apparentemente contingente. E viceversa.
Roberto Boggiani, Noceto Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579
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Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere
Caro Aldo,
quando il Papa lava e bacia i piedi ai detenuti chiamandoli fratelli, pensa alle vittime dei loro omicidi, violenze, sequestri, stupri? Alle mamme con i figli ammazzati, alle vittime dei pedofili e ai bimbi orfani?
Caro Antonello,
RPescara
icevo molte lettere scettiche verso il Papa, quando non apertamente ostili. La maggioranza riguarda la sua posizione sui migranti. Come tutte le forti personalità, Francesco ha acceso amore, speranze, commozione, ma anche risentimenti.
Premessa: la Chiesa non è una democrazia; l’Italia sì. Credo quindi che nella discussione pubblica chiunque, anche il Papa, possa essere soggetto al pensiero critico. Ma le critiche non possono prescindere dal fatto che il Papa fa il suo mestiere. Si pone cioè in una prospettiva del tutto diversa dalla nostra. Quando Francesco lava i piedi ai detenuti, non sta dando un giudizio morale assolutorio su di loro. Sta dicendo che lui, erede dell’apostolo Pietro, capo della cristianità, è disposto a quella che il mondo considererebbe un’umiliazione. Si china sul solco della degradazione umana, si fa carico del mistero del male. Essere cristiani in effetti significa anche lasciarsi sfidare di continuo dal perdono e dall’amore. Ma capisco che questo possa essere frainteso, in un Paese dove a volte i carnefici hanno più diritti e tutele delle loro vittime.
Il discorso vale anche per l’accoglienza ai migranti. Il Papa ci ricorda il dovere di soccorrere vite umane e di sacrificare un poco del nostro egoismo alla salvezza altrui. Di fronte alla vergogna di un’Europa che lascia affogare i profughi siriani nell’Egeo, il viaggio di Bergoglio a Lesbo (17 aprile 2016) è stato una pagina di riscatto per l’Occidente. Ma il Papa stesso si è reso conto (forse tardi) che le sue parole rischiavano di diventare un incoraggiamento a partire, non solo per i profughi ma anche per i milioni di africani mossi dalla spinta a migliorare la propria condizione. Una spinta che fa parte anch’essa della condizione umana, ma che i governi, gli uomini in uniforme, i volontari, i cittadini sono chiamati a rendere compatibile con le possibilità concrete di accoglienza e integrazione. Che hanno un limite, in Italia superato da tempo.