«A mio padre Anthony l’ho detto: accetto l’offerta, però cambio tutto»
Efisio Marras alla guida di I’M Isola. «Ho genitori ingombranti: respirano insieme»
Il mio stile «Sogno una ragazzaccia, punk e ribelle, che qualche volta se ne va di casa»
Di sé dice «faccio tanto rumore». Quando parla di suo padre lo chiama Anthony Marteens. Di sua mamma ricorda le balze con le quali si presentava a scuola. E al fratello invidia quel suo modo leggero di prendere le cose così che tutti lo lasciano in pace. È dura la vita del figlio di? Efisio Marras, 24 anni di entusiasmo allo stato puro, sorride con gli occhi come se in un lampo gli passassero davanti tanti momenti «vissuti intensamente». «A scuola quando cominciavo l’anno era sempre la stessa storia. Io volevo passare inosservato e invece “ma sei Marras il figlio .... ”, e io “si, del costruttore dell’ospedale di Fertilia”, ma poi arrivava mia madre con le sue balze e i suoi pizzi e capivano che invece mio padre era proprio lui, lo stilista».
Già Antonio Marras, che ora le ha affidato la linea contemporary I’M Isola.
«Mi ha fatto rincasare per la mostra che ha allestito alla Triennale. Stavo nel Paese più cool e lavoravo per l’uomo più giusto: New York e Mario Sorrenti, il fotografo. Facevo l’assistente di studio. Manovalanza, ma ogni giorno era una scoperta. Finito il lavoro su quell’incredibile mostra (Nulla dura sine linea ndr), mi ha chiesto di accompagnarlo a scegliere i tessuti per I’M Isola. Ho detto: vabbé Anthony, vediamo i tessuti insieme».
Anthony chi?
«Si Marteens! Così chiamo mio padre per dargli un respiro internazionale. Con mia mamma lo prendiamo in giro. Comunque siamo andati e io continuavo a rompergli le scatole su questo e quello e mi ha detto: “Sai che c’è ? Perché non la fai tu?”. E io: sai che c’è? Accetto. Ma a una condizione. Che me la fai fare, senza mettere becco. Così ho cominciato con una capsule di cose un po’ mie, più giovani e punk. Che sono piaciute. Piccoli bomber contemporanei in rete stampata un po’ Japan. Cose divertenti. Come queste casacche da basket».
Ma la grande passione per la fotografia?
«Ce l’ho sin da bambino, colpa della camera oscura che avevamo a casa. Così mi sono ritrovato a studiarla a Parigi, alla Parsons School, e poi a lavorare a New York. Non ho abbandonato l’idea. E le campagne me le scatto da solo».
Come se la cava con il taglia&cuci?
«Sono cresciuto in una casa ad Alghero che era ed è il laboratorio di Anthony e giocavo fra jersey e stampe! E quel gioco continua. Ho preso un team di designer della mia età e me li sono portati in Sardegna».
Che tipo di donna (coetanea?) vorrebbe vestire?
«Ecco al chiodo di Anthony voglio togliere i ricami da ragazzina. Sogno una ragazzaccia, un po’ punk e ribelle che qualche volta se ne va di casa perché non ne può più. Con piccoli atti di ribellione. Un po’ come ho fatto io».
Una proposta da padre disperato per un figlio lontano o da stilista lungimirante?
«Lui ha sempre sofferto la mia lontananza. Io mai (sorride perché sa di mentire, ndr). Però sono fiero di come sta andando e come ci dividiamo gli stessi spazi».
Ma allora le segue o no queste orme?
«Spero di andare in un’altra direzione. Però si, ora faccio lo stilista... Stilista? Non ci posso credere, l’ho detto. Eppure mi ha sempre pesato questa storia del figlio d’arte. Genitori ingombranti? Molto, fisicamente e psicologicamente. Sopravvivere ad Anthony e Patrizia è stata dura perché loro sono una cosa sola. Sono un unico, una figura enorme. Respirano, vivono insieme. Quando non lo fanno stanno male. Si chiamano 10 volte al giorno».
La moda come la guarda?
«Non l’ho mai seguita. Io andavo a cavallo, salto agli ostacoli. Ero bravino, poi ho lasciato tutto per andare a Parigi. Ma ho dei punti di riferimento. A 14 anni ero ribelle e facevo punk rock volevo essere Sid Vicious con anfibio e jeans strappato, così ora. Stilisti? Undercover e Raf Simons, un genio. Poi Anthony certo che ha tutto su Romeo Gigli, ma non è il mio mondo».