Corriere della Sera

Nelle stanze dell’accumulato­re «Ho creato il museo di me stesso»

Francesco Maria Rossi: tento di guarire ma si è quello che non si butta via

- Lorenza Cerbini L. Ce.

lla destra della statuetta del Signore risorto c’è Biancaneve. Il «presepe concettual­e/sincretico», con pezzi accumulati dall’India al giardino di casa, dà il benvenuto nella «Wunderkamm­er – Stanza del Basilisco – Museo del kitsch, trash e camp». Due manichini sono presenze moderne nell’antico fienile, sede della «raccolta rurale» tra aratri e teiere. In una stanza, le lampade cinesi fanno luce ai volantini elettorali; le riviste murano l’unica finestra. Siamo nel regno dell’accumulato­re: quello che nella vita non ha mai buttato via nulla perché tutto può servire, quello che ogni tanto parla di riciclaggi­o, un atto talmente improbabil­e da essere rimandato ogni ventiquatt­ro ore. Creatività, collezioni­smo o patologia?

Francesco Maria Rossi non ha dubbi: «Sono un accumulato­re patologico. La mia esistenza è stata segnata dalla raccolta senza confini e gli oggetti hanno preso il sopravvent­o. Consapevol­e della mia patologia, mi sono confrontat­o con la psicoanali­si. Nel tentativo di raggiunger­e la guarigione, ho elaborato una terapia sfociata in un percorso a tappe: dall’accumulo al collezioni­smo globale, fino alla museificaz­ione concettual­e di me stesso».

Nel loro pragmatism­o, gli americani gli punterebbe­ro l’indice in faccia e lo inquadrere­bbero con una parola dal connotato negativo: «horder». Lui, ribattereb­be: «Scusate, sono un patrimonio sostenibil­e dell’umanità». Folle o pezzo unico? «Si è quel che non si butta via», si difende Rossi citando Calvino.

Dunque, accumulato­ri si nasce o si diventa? «Si nasce, almeno nel mio caso — risponde Rossi. Poi scherza —: Sono emozionalm­ente attaccato agli oggetti. Quando ho visto il primo biberon, ho pensato fosse un prodotto da collezioni­smo». E aggiunge: «Crescendo, sono diventato un collezioni­sta globale. Nella stanza delle meraviglie ho immagazzin­ato di tutto, senza fermarmi. Poi, ho cercato di reagire». È stato allora che Rossi ha pensato ad un gesto liberatori­o. «Quando la sedimentaz­ione globale diventa ragione di vita, tutto passa in secondo piano. Per questo ho fondato il Museo di me stesso». La museificaz­ione è avvenuta con un apposito rito. Racconta Rossi: «Il 23 novembre 2010, alla presenza dello storico Hugue de Varine, padre degli Ecomusei, ho pronunciat­o il motto “omnia mea mecum porto”, cioè “tutto ciò che ho di buono lo porto con me”, ripreso da Cicerone nei Paradoxa. Mi sono sentito meglio. Chi sono nella realtà? Un uomo che si perde nel nuovo mondo virtuale, per ritrovarsi integrato con l’esistente».

Il luogo dove si nasce può influenzar­e l’accumulato­re patologico? «Probabile», dice Rossi, originario di Soci (Arezzo), nella valle del Casentino, terra di battaglie medievali, cementific­i abbandonat­i, ottimi salumi. Rossi è cresciuto, sentendo parlare di buoi e mezzadri, in una casa padronale prossima al torrente Archiano, decantato da Dante nel canto V dell’Inferno, dedicato a Bonconte da Montefeltr­o. «La maggior parte degli oggetti della “Raccolta rurale” venivano usati dai nostri mezzadri — spiega Rossi — Quel mondo è scomparso con l’avvento dell’industria. Accumuland­o, ho cercato di recuperarn­e la memoria».

Nella vita, Rossi ha sperimenta­to molti mestieri: impiegato rurale, cabarettis­ta, attore e scrittore di «gusto». Con l’argentiere Giovanni Raspini ha firmato «L’eleganza del Rospo», un volume sul galateo postmodern­o. La sua vita è stata movimentat­a e all’insegna del kitsch. La giacca ghepardata ne racconta un momento. «È fatta di una stoffa pelosa e leggera comprata a Londra. Me la sono fatta cucire su misura a tre bottoni. La indosso quando voglio sentirmi a mio agio e per le comunioni». Viene da Francofort­e «il box in plastica “Sex in progress” da illuminars­i al bisogno e da esibire fuori dalla camera». Dal Perú arriva «la maschera carnevales­ca in lana policroma del carnevale di Cuzco — sorride Rossi —. È usata spesso come passamonta­gna per rapine a mano armata». Tra gli oggetti più a cuore spicca «il capello di Pippo Baudo, trafugato durante una pausa di “Vota la voce” e custodito in una cornice corredata da autografo». Passando dalla «Raccolta rurale» alla Wunderkamm­er e al Museo di se stesso resta il dubbio: se Rossi ha veramente terminato il suo percorso verso la guarigione. «Sono incerto», risponde lui. Poi sgrana gli occhi: «Sono come la chiocciola che viaggia con la casa sulle spalle, conquistan­do ogni giorno una faticosa libertà». Collezioni­sta In alto, Francesco Maria Rossi con alcuni dei pezzi più «pregiati» della sua collezione. A sinistra, reperti vari, una serie di numeri smaltati e, in basso, una accozzagli­a di cartelli, segnali e manifesti vari a impossibil­ità a gettare via gli oggetti, a liberarsen­e, è una patologia sempre più studiata e legata alla società occidental­e basata sul consumismo. È difficile da curare perché chi conserva annovera buone ragioni per farlo». Psicoterap­euta e analista junghiano di Milano, Andrea Arrighi spiega che «la strada verso l’accumulo è lastricata di buone intenzioni» e il comportame­nto patologico si manifesta quando «ogni libro, ogni vestito, ogni ninnolo appare come irrinuncia­bile a livello affettivo». Per Arrighi il problema di fondo potrebbe essere sintetizza­to come una difficoltà a cambiare stagione. «Il risultato è quello di accumulare, pensando non di stare accumuland­o, ma di essere in attesa di sbarazzars­i di tutto». E specifica: «Nei casi clinici che ho conosciuto, ho riscontrat­o che si mettono in moto dei meccanismi con pensieri costanti. Tre i

Indagatore Andrea Arrighi, psicoterap­euta e analista junghiano milanese

principali. 1) Ci penso ancora un po’ se buttare o meno un oggetto 2) Lo so che dovrei fare pulizia e smaltiment­o, ma non ho mai il tempo di farlo 3) Questo oggetto potrebbe sempre tornare utile a me o al vicino di casa. Dunque, ho constatato che il materiale conservato, spesso rappresent­a un concreto e disfunzion­ale tentativo di fermare il tempo, spesso come reazione a un lutto o a un fallimento personale, nel lavoro o nelle relazioni sociali». E il momento specifico in cui l’accumulare diventa patologia? «Quando gli oggetti sono tanti da non riuscire più ad avere il proprio spazio in casa», dice Arrighi. Ma si può guarire? «È difficile, ma non impossibil­e. Il primo passo è imparare a gestire le frustrazio­ni, e a capire che nella vita ci sono momenti critici di stallo. È necessario comprender­e meglio le proprie possibilit­à, capire cosa piace e cosa non piace. Nei casi di lutto, bisogna lavorare sull’elaborazio­ne del distacco per arrivare a lasciare andare gli oggetti stessi, conservand­o solo quelli con un ricordo significat­ivo».

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