Corriere della Sera

Una vittima ogni 35 ore, le vite a rischio di chi pedala

- Di Paolo Tomaselli

Èlo sport della strada, quello in cui i campioni come Michele Scarponi si allenano sullo stesso terreno — molto trafficato — degli amatori o dei ragazzini che vanno a scuola in sella a una bicicletta. E come loro rischiano tutti i giorni la vita: sono 251 i ciclisti morti in Italia ogni anno, uno ogni 35 ore. E ogni mezzora c’è un ferito: sono 16.827 ogni 12 mesi.

La litania dei dati Istat può continuare, tra le diverse cause di incidenti e le tipologie di mezzi contro cui vanno a scontrarsi le biciclette: sono cifre di una guerra, che l’Associazio­ne dei corridori profession­isti sta provando a combattere attraverso il «Decreto salvacicli­sti» arrivato in Senato il 16 marzo.

La modifica al codice della strada che si sta vagliando — l’obbligo di mantenere una distanza di sicurezza di un metro e mezzo quando si supera una bicicletta — non avrebbe certo salvato «Scarpa», uno dei corridori italiani più popolari e amati. Però da qualche parte bisogna pur cominciare per sensibiliz­zare auto, moto e camion, ma anche gli stessi ciclisti, sui pericoli, sui diritti e sui doveri che la condivisio­ne della strada impone. A tutti.

Fernando Alonso usa la bicicletta per passione e per allenarsi agli sforzi massacrant­i della Formula 1: «Se ho paura a fare il pilota a 300 all’ora? È peggio andare in bici — ripete spesso lo spagnolo —. I pericoli veri li ho incontrati quando pedalavo attorno a Maranello».

E di sicuro quella dell’ex ferrarista non è un’esagerazio­ne. Perché nel far west delle nostre strade i ciclisti non sono né i cowboy né gli indiani: sono donne e bambini, soggetti indifesi, a volte parecchio indiscipli­nati (basta essere un pedone sui marciapied­i di Milano per rendersene conto) ma sempre in equilibrio sul filo sottile di quei tubolari strettissi­mi. Che portano i ragazzi che consegnano il sushi dal prossimo cliente. E i profession­isti in cima allo Stelvio o all’Izoard.

E poi giù in discesa sfiorando i cento all’ora: i rischi che prendono i campioni del pedale, soprattutt­o in discesa, sono sempliceme­nte inimmagina­bili per chi non fa il loro mestiere. E quando qualcuno muore in corsa, come accadde al Giro nel 2010 con la tragedia del belga Wouter Weilandt, lo choc che attraversa tutto il gruppo è altrettant­o difficile da spiegare, come quello di una tribù colpita al cuore nella propria riserva.

Ma oggi la riserva è aperta. E non c’è protezione, non c’è conforto. Perché la tribù di chi pedala è vastissima, fragile e tristement­e consapevol­e di un fatto: la morte di un campione — come quella di Giacomo, il ragazzino travolto a Milano da un tram dopo aver evitato la portiera di un’auto che si apriva o del giornalist­a Pier Luigi Todisco della Gazzetta dello Sport investito da un camion, solo per citare due casi tra mille — molto difficilme­nte cambierà le cose. E questo, se possibile, fa ancora più male.

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