PER LA CRISI TRA USA E COREA SERVE UNA SOLUZIONE CINESE
Fra missili che esplodono dopo poco in mare, e minacce di nuovi test nucleari, la mossa del dittatore nordcoreano Kim Jong-un è apparsa soprattutto come la prosecuzione della strategia seguita dal padre, Kim Jong-il, per costringere Washington a riconoscere formalmente il regime di Pyongyang agitando lo spettro di una capacità nucleare in rapida crescita. Il primo era stato ben attento a tenersi al di qua della soglia operativa; il figlio ha alzato molto la posta, brandendo un potenziale missilistico capace di colpire (almeno in teoria) il Giappone e gli stessi Usa. Kim ha studiato in Svizzera e conosce il mondo più di quanto si pensi (sicuramente meglio dei suoi compatrioti): forse ha puntato sul rifiuto per così dire antropologico degli americani dinanzi alla sola ipotesi di un attacco diretto al loro territorio, ma ha commesso errori che potrebbero rivelarsi esiziali.
Il chicken game («gioco del pollo») nella teoria dei giochi prende spunto dalle sfide fra i giovani in California negli anni Sessanta, per ipotizzare due automobili lanciate l’una contro l’altra alla massima velocità: chi sterza per primo perde ed è chicken (vigliacco, nello slang americano); nella maggior parte dei casi il risultato è che perdono entrambi. Lo scenario, nel quale la corretta valutazione delle percezioni psicologiche dell’avversario è fondamentale, si applica bene a questa crisi. Trump vuole dare una prova di forza ma mostra di avere capito che non può spingersi troppo oltre: fatte le debite proporzioni c’è una bella differenza fra bombardare un Paese a pezzi come la Siria, e un attacco contro un dittatore in grado di distruggere per rappresaglia buona parte della Corea del Sud. Al tempo stesso, se la situazione resta bloccata, l’effetto d’annuncio della minaccia perde di efficacia e la credibilità degli Stati Uniti subisce un colpo decisivo. Kim sa bene che l’opzione nucleare equivale a porsi al di fuori del consesso delle nazioni civili. Al tempo stesso, egli teme che un intervento militare americano potrebbe innescare il disfacimento del regime determinando la sua fine politica e personale.
Dell’imprevedibilità di Trump si è detto e scritto più di quanto si sia davvero capito. La macchina del governo americano è in grado di assicurare un freno —e i movimenti ondivaghi della flotta inviata nell’area ne sono una rappresentazione — ma la convinzione di esercitare una egemonia assoluta sul piano internazionale potrebbe indurlo a qualche errore nel chiamare il bluff dell’avversario. Il quale, di fronte all’ipotesi concreta della distruzione del suo sistema di potere, potrebbe cedere alla suggestione psicotica di un sacrificio globale. Ci troviamo dinanzi a due imprevedibilità (di cui una, quella di Kim, sicuramente molto più incontrollabile) che potrebbero alimentarsi pericolosamente e che, per consentire ad entrambi di recedere dallo scontro salvaguardando le posizioni di principio, richiedono un intervento terzo. E qui entra pesantemente in gioco la Cina.
Pechino è la sola che può costringere il satrapo di Pyongyang a fare marcia indietro e ha interesse a farlo quanto prima possibile. Per Washington,
è fondamentale uscire dall’impasse senza danni per il proprio prestigio. La Cina rappresenta il punto di snodo di una possibile intesa, di cui sarebbe ad un tempo il mediatore e il principale garante. Rivolgendosi a Xi Jinping, che era stato colto di sorpresa a Mar-a-Lago dalla mossa del suo interlocutore, Trump gli ha dato la possibilità di dimostrare che, senza Pechino, di soluzioni durature alla crisi non se ne trovano. La diplomazia muscolare cara a Trump rischia di rafforzare la percezione di un progressivo indebolimento del ruolo degli USA in Asia.
Gli alleati storici — dalle Filippine al Sud Est asiatico — si interrogano sulla garanzia di Washington e cercano di controassicurarsi con Xi Jinping. Australia, Giappone e Nuova Zelanda danno vita ad un si- stema multilaterale autonomo nella regione, mentre Tokyo riflette (con qualche esitazione) se riarmarsi sul serio. Il Vietnam cerca partners che ne rafforzino la mano nei confronti di Pechino. L’India, nella sua perenne rincorsa alla Cina, si va dotando di una capacità militare strategica. Gli Stati Uniti sono stati sinora il riferimento obbligato di qualsiasi politica e il quadro di movimento che si disegna negli equilibri geostrategici rafforza il ruolo di Pechino, facendo il giuoco di Putin. È un’evoluzione che ci coinvolge tutti direttamente: se gli alleati europei si mostrano spesso distratti, l’attenzione dell’Italia è quasi inesistente. Non bastano gli occasionali soprassalti di interesse per il mercato cinese mentre, per fare un esempio, la presenza in Australia di una comunità di origine italiana forte e integrata sarebbe un valido strumento per una soft policy asiatica dell’Italia. Continuiamo invece a cullarci nell’illusione che tutto ciò non incida sulla nostra sicurezza, presi dalle vicende dei gazebo.
Trump Troppo protagonismo rischia di aumentare la percezione di un indebolimento