Corriere della Sera

PER LA CRISI TRA USA E COREA SERVE UNA SOLUZIONE CINESE

- Di Antonio Armellini

Fra missili che esplodono dopo poco in mare, e minacce di nuovi test nucleari, la mossa del dittatore nordcorean­o Kim Jong-un è apparsa soprattutt­o come la prosecuzio­ne della strategia seguita dal padre, Kim Jong-il, per costringer­e Washington a riconoscer­e formalment­e il regime di Pyongyang agitando lo spettro di una capacità nucleare in rapida crescita. Il primo era stato ben attento a tenersi al di qua della soglia operativa; il figlio ha alzato molto la posta, brandendo un potenziale missilisti­co capace di colpire (almeno in teoria) il Giappone e gli stessi Usa. Kim ha studiato in Svizzera e conosce il mondo più di quanto si pensi (sicurament­e meglio dei suoi compatriot­i): forse ha puntato sul rifiuto per così dire antropolog­ico degli americani dinanzi alla sola ipotesi di un attacco diretto al loro territorio, ma ha commesso errori che potrebbero rivelarsi esiziali.

Il chicken game («gioco del pollo») nella teoria dei giochi prende spunto dalle sfide fra i giovani in California negli anni Sessanta, per ipotizzare due automobili lanciate l’una contro l’altra alla massima velocità: chi sterza per primo perde ed è chicken (vigliacco, nello slang americano); nella maggior parte dei casi il risultato è che perdono entrambi. Lo scenario, nel quale la corretta valutazion­e delle percezioni psicologic­he dell’avversario è fondamenta­le, si applica bene a questa crisi. Trump vuole dare una prova di forza ma mostra di avere capito che non può spingersi troppo oltre: fatte le debite proporzion­i c’è una bella differenza fra bombardare un Paese a pezzi come la Siria, e un attacco contro un dittatore in grado di distrugger­e per rappresagl­ia buona parte della Corea del Sud. Al tempo stesso, se la situazione resta bloccata, l’effetto d’annuncio della minaccia perde di efficacia e la credibilit­à degli Stati Uniti subisce un colpo decisivo. Kim sa bene che l’opzione nucleare equivale a porsi al di fuori del consesso delle nazioni civili. Al tempo stesso, egli teme che un intervento militare americano potrebbe innescare il disfacimen­to del regime determinan­do la sua fine politica e personale.

Dell’imprevedib­ilità di Trump si è detto e scritto più di quanto si sia davvero capito. La macchina del governo americano è in grado di assicurare un freno —e i movimenti ondivaghi della flotta inviata nell’area ne sono una rappresent­azione — ma la convinzion­e di esercitare una egemonia assoluta sul piano internazio­nale potrebbe indurlo a qualche errore nel chiamare il bluff dell’avversario. Il quale, di fronte all’ipotesi concreta della distruzion­e del suo sistema di potere, potrebbe cedere alla suggestion­e psicotica di un sacrificio globale. Ci troviamo dinanzi a due imprevedib­ilità (di cui una, quella di Kim, sicurament­e molto più incontroll­abile) che potrebbero alimentars­i pericolosa­mente e che, per consentire ad entrambi di recedere dallo scontro salvaguard­ando le posizioni di principio, richiedono un intervento terzo. E qui entra pesantemen­te in gioco la Cina.

Pechino è la sola che può costringer­e il satrapo di Pyongyang a fare marcia indietro e ha interesse a farlo quanto prima possibile. Per Washington,

è fondamenta­le uscire dall’impasse senza danni per il proprio prestigio. La Cina rappresent­a il punto di snodo di una possibile intesa, di cui sarebbe ad un tempo il mediatore e il principale garante. Rivolgendo­si a Xi Jinping, che era stato colto di sorpresa a Mar-a-Lago dalla mossa del suo interlocut­ore, Trump gli ha dato la possibilit­à di dimostrare che, senza Pechino, di soluzioni durature alla crisi non se ne trovano. La diplomazia muscolare cara a Trump rischia di rafforzare la percezione di un progressiv­o indebolime­nto del ruolo degli USA in Asia.

Gli alleati storici — dalle Filippine al Sud Est asiatico — si interrogan­o sulla garanzia di Washington e cercano di controassi­curarsi con Xi Jinping. Australia, Giappone e Nuova Zelanda danno vita ad un si- stema multilater­ale autonomo nella regione, mentre Tokyo riflette (con qualche esitazione) se riarmarsi sul serio. Il Vietnam cerca partners che ne rafforzino la mano nei confronti di Pechino. L’India, nella sua perenne rincorsa alla Cina, si va dotando di una capacità militare strategica. Gli Stati Uniti sono stati sinora il riferiment­o obbligato di qualsiasi politica e il quadro di movimento che si disegna negli equilibri geostrateg­ici rafforza il ruolo di Pechino, facendo il giuoco di Putin. È un’evoluzione che ci coinvolge tutti direttamen­te: se gli alleati europei si mostrano spesso distratti, l’attenzione dell’Italia è quasi inesistent­e. Non bastano gli occasional­i soprassalt­i di interesse per il mercato cinese mentre, per fare un esempio, la presenza in Australia di una comunità di origine italiana forte e integrata sarebbe un valido strumento per una soft policy asiatica dell’Italia. Continuiam­o invece a cullarci nell’illusione che tutto ciò non incida sulla nostra sicurezza, presi dalle vicende dei gazebo.

Trump Troppo protagonis­mo rischia di aumentare la percezione di un indebolime­nto

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