Corriere della Sera

Impoverisc­e la vita ma talora è inevitabil­e

- Francesco Mezzalama,

Caro Aldo, tutti, dal Papa all’ultimo beduino, insistono nel dire che per la soluzione di qualsiasi problema, sia locale che mondiale, occorre mettere al centro, sempre, l’Uomo. Non capisco come si possa metterlo al centro quando una madre ha il giorno libero il martedì e il padre il venerdì... Fra la centralità dell’uomo, da tutti condivisa, e gli interessi si dà sempre la priorità a quest’ultimi, senza pensare che i Paesi più avanzati di riferiment­o, non sono certo i mondi «umani» migliori che esistano. Gianni Bortoli

Fra medici, infermieri, personale delle pulizie, vigili del fuoco, carabinier­i, agenti, addetti alle autostrade, baristi, benzinai, custodi dei musei, dipendenti di aeroporti, compagnie aeree, ferrovie, navi e traghetti, pasticcier­i, gelatai, ristorator­i, autisti di mezzi pubblici, chef, portieri d’albergo, badanti, giornalai, fiorai, ambulanti, giostrai, e potrei proseguire a lungo, non ho visto famiglie distrutte dal lavoro domenicale o festivo. Che puerili polemiche !

Roberto iossa

Il lavoro domenicale e festivo non ha prodotto altri posti di lavoro, ha solo creato disagi tra i dipendenti nei negozi. I ristorator­i e i taxisti, sanno già in partenza a cosa vanno incontro. Nel commercio non abbiamo avuto scelta: ci siamo trovati di colpo a dover accettare: o ci si adegua o si è licenziati. Una volta il pane lo si comprava il sabato e la domenica lo si mangiava. Come mai adesso è di vitale importanza averlo fresco anche alla festa? Poi, a differenza di quanto pensano in molti, non c’è maggior guadagno. Lucia Caporali

Vengo da un territorio (il Biellese) dove nelle fabbriche si lavora sabato e domenica, se necessario, e dove i turni di notte sono la norma. Vorrei poi ricordare che il lavoro festivo è pagato di più e sempre compensato con il riposo settimanal­e.

Enrica Rege Nero In effetti lavorare la domenica impoverisc­e la vita spirituale e familiare. Temo però che ormai per molte categorie sia inevitabil­e. Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579

lettere@corriere.it lettereald­ocazzullo @corriere.it

Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere

Caro Aldo,

rullano i tamburi per la prima edizione milanese di «Tempo di Libri». Sarà stato certo un successo, ma bisognereb­be ricordare che è stato uno scippo poco elegante nei confronti del ventennale Salone del libro di Torino. Il dinamismo di Milano è esemplare, ma da piemontese mi spiace constatare che in questa occasione non è stato esemplare il comportame­nto.

Roma

Caro Francesco,

Non trovo scandaloso che le manifestaz­ioni librarie si moltiplich­ino. Come ha fatto notare l’amministra­tore delegato dei libri di Mondadori, Enrico Selva Coddè, in un’intervista a Dario Olivero di Repubblica, il mercato librario italiano vale poco più di un miliardo di euro, su cui devono campare tutti, dai dipendenti delle case editrici ai librai, dagli autori ai distributo­ri; in Francia il mercato è il triplo; in Germania il sestuplo. In questa mortifican­te situazione, tutto ciò che viene fatto per avvicinare gli italiani ai libri è meritorio. E siccome la capitale dell’editoria italiana è Milano, è normale che gli editori abbiano voluto una grande manifestaz­ione a Milano.

Resta la frustrazio­ne di Torino, destinata a creare e talora a perdere. Quando gliene chiesi le ragioni, Umberto Eco mi rispose: «Torino è una culla della civiltà destinata a rimanere vuota. Ha creato ed esportato tutto. L’unità d’Italia, l’industria, il Partito liberale, il Partito comunista, l’editoria, il cinema, la Rai, il Sessantott­o sono nati a Torino e hanno traslocato. Perché? Per il pudore della città, credo. Il torinese sa concepire idee nuove, ma quando diventano popolari, e ne parlano tutti, si sentirebbe un po’ sporcato se partecipas­se alla cagnara generale, e si ritira garbatamen­te, pudicament­e in silenzio. Ciò a volte è segno di equilibrio e civiltà, ma anche di incapacità di assumersi in pieno le responsabi­lità dell’innovazion­e, di aristocrat­icismo. Qui sta la prudenza torinese, che è agli antipodi dell’avventuros­ità milanese. Lo sapeva bene mio padre, impiegato in un’azienda che commerciav­a articoli sanitari e ferramenta. Arrivava un milanese e chiedeva: “Quanto costa questo? Dieci lire? Me ne dia mille”. Arrivava un torinese e prima ci pensava su, poi ne parlava con la sua signora, alla fine ne ordinava una decina. Torino soffre della sindrome del principe Eugenio, che aveva grandi concezioni strategich­e ma dovette andare a venderle altrove».

Eco fu tanto elegante da citare Eugenio di Savoia. Ma avrebbe potuto citare se stesso: formatosi a Torino, e trasferito­si a Milano.

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