Impoverisce la vita ma talora è inevitabile
Caro Aldo, tutti, dal Papa all’ultimo beduino, insistono nel dire che per la soluzione di qualsiasi problema, sia locale che mondiale, occorre mettere al centro, sempre, l’Uomo. Non capisco come si possa metterlo al centro quando una madre ha il giorno libero il martedì e il padre il venerdì... Fra la centralità dell’uomo, da tutti condivisa, e gli interessi si dà sempre la priorità a quest’ultimi, senza pensare che i Paesi più avanzati di riferimento, non sono certo i mondi «umani» migliori che esistano. Gianni Bortoli
Fra medici, infermieri, personale delle pulizie, vigili del fuoco, carabinieri, agenti, addetti alle autostrade, baristi, benzinai, custodi dei musei, dipendenti di aeroporti, compagnie aeree, ferrovie, navi e traghetti, pasticcieri, gelatai, ristoratori, autisti di mezzi pubblici, chef, portieri d’albergo, badanti, giornalai, fiorai, ambulanti, giostrai, e potrei proseguire a lungo, non ho visto famiglie distrutte dal lavoro domenicale o festivo. Che puerili polemiche !
Roberto iossa
Il lavoro domenicale e festivo non ha prodotto altri posti di lavoro, ha solo creato disagi tra i dipendenti nei negozi. I ristoratori e i taxisti, sanno già in partenza a cosa vanno incontro. Nel commercio non abbiamo avuto scelta: ci siamo trovati di colpo a dover accettare: o ci si adegua o si è licenziati. Una volta il pane lo si comprava il sabato e la domenica lo si mangiava. Come mai adesso è di vitale importanza averlo fresco anche alla festa? Poi, a differenza di quanto pensano in molti, non c’è maggior guadagno. Lucia Caporali
Vengo da un territorio (il Biellese) dove nelle fabbriche si lavora sabato e domenica, se necessario, e dove i turni di notte sono la norma. Vorrei poi ricordare che il lavoro festivo è pagato di più e sempre compensato con il riposo settimanale.
Enrica Rege Nero In effetti lavorare la domenica impoverisce la vita spirituale e familiare. Temo però che ormai per molte categorie sia inevitabile. Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579
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Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere
Caro Aldo,
rullano i tamburi per la prima edizione milanese di «Tempo di Libri». Sarà stato certo un successo, ma bisognerebbe ricordare che è stato uno scippo poco elegante nei confronti del ventennale Salone del libro di Torino. Il dinamismo di Milano è esemplare, ma da piemontese mi spiace constatare che in questa occasione non è stato esemplare il comportamento.
Roma
Caro Francesco,
Non trovo scandaloso che le manifestazioni librarie si moltiplichino. Come ha fatto notare l’amministratore delegato dei libri di Mondadori, Enrico Selva Coddè, in un’intervista a Dario Olivero di Repubblica, il mercato librario italiano vale poco più di un miliardo di euro, su cui devono campare tutti, dai dipendenti delle case editrici ai librai, dagli autori ai distributori; in Francia il mercato è il triplo; in Germania il sestuplo. In questa mortificante situazione, tutto ciò che viene fatto per avvicinare gli italiani ai libri è meritorio. E siccome la capitale dell’editoria italiana è Milano, è normale che gli editori abbiano voluto una grande manifestazione a Milano.
Resta la frustrazione di Torino, destinata a creare e talora a perdere. Quando gliene chiesi le ragioni, Umberto Eco mi rispose: «Torino è una culla della civiltà destinata a rimanere vuota. Ha creato ed esportato tutto. L’unità d’Italia, l’industria, il Partito liberale, il Partito comunista, l’editoria, il cinema, la Rai, il Sessantotto sono nati a Torino e hanno traslocato. Perché? Per il pudore della città, credo. Il torinese sa concepire idee nuove, ma quando diventano popolari, e ne parlano tutti, si sentirebbe un po’ sporcato se partecipasse alla cagnara generale, e si ritira garbatamente, pudicamente in silenzio. Ciò a volte è segno di equilibrio e civiltà, ma anche di incapacità di assumersi in pieno le responsabilità dell’innovazione, di aristocraticismo. Qui sta la prudenza torinese, che è agli antipodi dell’avventurosità milanese. Lo sapeva bene mio padre, impiegato in un’azienda che commerciava articoli sanitari e ferramenta. Arrivava un milanese e chiedeva: “Quanto costa questo? Dieci lire? Me ne dia mille”. Arrivava un torinese e prima ci pensava su, poi ne parlava con la sua signora, alla fine ne ordinava una decina. Torino soffre della sindrome del principe Eugenio, che aveva grandi concezioni strategiche ma dovette andare a venderle altrove».
Eco fu tanto elegante da citare Eugenio di Savoia. Ma avrebbe potuto citare se stesso: formatosi a Torino, e trasferitosi a Milano.