La riflessione
Imigliori protagonisti e osservatori della Rivoluzione francese sapevano che esisteva un prezioso precedente a cui la Francia poteva ispirarsi. Era quello della Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688-89, quando un gruppo di parlamentari conservatori e liberali avevano chiesto a Guglielmo d’Orange e alla moglie Mary di scalzare Giacomo II Stuart dal trono d’Inghilterra; ma non senza avere prima pattuito con il sovrano olandese una sorta di nuova Magna Charta e una solenne «dichiarazione dei diritti». Il risultato fu la prima monarchia costituzionale: una brillante architettura politica in cui il sovrano, il popolo e il Parlamento avrebbero creato una nuova armonia dei poteri.
In Francia le cose andarono assai diversamente. L’Assemblea nazionale si attribuì poteri che non sarebbe stata capace di esercitare. La plebe si impadronì dei Comuni e della piazza. Il sovrano fu incarcerato, processato e assassinato. Una gentile regina subì la stessa sorte. Il risultato fu una micidiale combinazione di anarchia e terrore che venne coronata da una intera generazione di guerre europee e agitazioni civili.
Fra i primi ad accorgersi che la Francia stava imboccando la strada sbagliata vi fu un intellettuale geniale e ambizioso che sapeva usare la penna come un bisturi. Si chiamava Antoine de Rivarol ed era nato in Linguadoca nel 1753. Quando giunse a Parigi e cominciò a frequentarne i salotti, si nobilitò proclamandosi conte, ma era probabilmente figlio di un locandiere piemontese che aveva attraversato Gli uomini non nascono uguali ma una società bene ordinata può renderli tali con le leggi le Alpi per cercare fortuna. La bugia, comunque, gli fu rapidamente perdonata. Erano tempi, soprattutto in Francia, in cui l’intelligenza, insieme al gusto della replica e della battuta, aprivano molte porte. Il giovane franco-piemontese aveva numerosi talenti. Tradusse l’Inferno di Dante in francese. Vinse un premio della Accademia di Berlino con un Discorso sulla universalità della lingua francese e demolì alcune reputazioni letterarie con un malizioso Piccolo almanacco dei nostri grandi uomini. Quando scoppiò la Rivoluzione cominciò a farne una analisi quotidiana nel «Journal Politique National»; una fitta serie cronache che sono state ora in parte pubblicate dall’editore Aragno, a cura di Massimo Carloni, con il titolo Annali della Rivoluzione francese.
Rivarol era conservatore e monarchico, ma i suoi commenti non facevano concessioni e furono severi con tutti i protagonisti della vicenda. Denunciò
Criticò gli agitatori della plebe ma anche il debole sovrano Luigi XVI
la debolezza di Luigi XVI, la vanità di Jacques Necker (direttore generale delle Finanze nella fase più acuta della crisi), le mosse avventate dell’Assemblea nazionale, le smisurate ambizioni del duca d’Orléans, il vaniloquio dell’oratoria rivoluzionaria. Della plebe disse che «crede di procedere meglio verso la libertà quanto più attenta a quella degli altri»; e aggiunse che è «cannibale, antropofaga e che gusta la libertà come i liquori forti, solo per inebriarsi e infuriarsi». In anni in cui la verità rivoluzionaria voleva che tutti gli uomini nascessero eguali, Rivarol osava sostenere che tutti gli uomini nascono disuguali, «che l’uno nasce forte e l’altro debole; che uno è sano e l’altro infermo; che tutti non sono ugualmente abili e attenti, e che il capolavoro di una società bene ordinata è rendere uguali, tramite le leggi, coloro che la natura ha fatto così diversi». In un epoca in cui si affermava che la sovranità fosse nel popolo, Rivarol non esitava a replicare: «Certamente, ma vi è (…) a condizione che il popolo non la eserciti mai, se non per nominare i propri rappresentanti; e se si tratta di una Monarchia, a condizione che il re sia sempre il primo magistrato».
Era inevitabile che una penna come quella di Rivarol fosse costretta a lasciare la Francia per evitare la ghigliottina. Nel 1792 andò a Bruxelles, poi a Londra e Amburgo. Nella capitale inglese trovò persone come Edmund Burke e William Pitt, che conoscevano la freschezza e l’originalità delle sue cronache. Burke, in particolare, si era già pronunciato in uno scritto del 1790 (Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia) e considerava Rivarol una sorta di anima gemella. Come ricorda Carloni nella sua nota alla edizione di Aragno, il brillante scrittore britannico di origine irlandese scrisse nel 1791 che gli Annali di Rivarol un giorno «staranno accanto a quelli di Tacito». Aveva ragione, ma la storia gli dette torto. Dopo Napoleone e altre esperienze monarchiche, la Francia decise di esaltare la Rivoluzione e fece del 14 luglio (il giorno in cui la «plebe» distrusse una fortezza insignificante) la sua festa nazionale.
Edmund Burke lo accolse a Londra come un’anima gemella