Corriere della Sera

La famiglia di Henry James lotta per i diritti delle donne

- di Franco Cordelli

Nel piccolo, nobile e ormai antico teatro La Comunità, il teatro di Giancarlo Sepe, il sipario si alza su una scena (di Carlo De Marino) nobile e antica quanto il tetro che la ospita, ma non altrettant­o piccola. Sulle pareti d’avanscena vi sono i ritratti dei personaggi che non ci sono più e che la protagonis­ta Catherine Sloper va toccando e rammemoran­do; sui due lati corrono tappezzeri­e di remoto lusso e aperture su stanze e sedie e ornamenti floreali; sul fondo spicca una bandiera americana.

È questo elemento che, un poco, ci turba. Lo spettacolo cui assistiamo è intitolato Washington Square ed è tratto dal romanzo di Henry James del 1880. James era americano, per quanto europeizza­to più tardi si fosse, ma perché quel segnale, quasi (si direbbe) quell’ostentazio­ne? La vicenda che egli racconta è così irrimediab­ilmente americana o è, anche, come tendiamo a credere, inglese, francese, italiana? La traccia è da commedia dell’arte. Ove si assumesse come perno dei fatti la signora Penniman, sorella del padre di Catherine, Austin Sloper, non faticherem­mo a pensarla simile a quel servo ficcanaso che corre da uno all’altra per tessere le fila di una storia o, chissà, per pura malizia, rovinarne la possibilit­à. A un estremo c’è lei Catherine, che James definisce non «assolutame­nte destinata a rimanere zitella, ma certo una ragazza senza attrattive». All’altro c’è Morris Townsend, un cacciatore di dote bello e brillante che, sempre James, tarda a farci apparire per quel che è. Tra loro la zia di Catherine, la signora Penniman di cui dicevo; e sopra di loro, sovrastant­e, potente, sicuro di sé, il padre Austin Sloper. Egli ha capito subito, quel Morris per la figlia non va bene, e tra lui e Catherine comincia il braccio di ferro che si protrarrà fino alla presa di coscienza, nella ragazza, delle ragioni del padre.

La sofferenza di Catherine è lo sfibrato nerbo del romanzo, un capolavoro di sottigliez­za, di estenuazio­ne, di mancata redenzione. Nelle ultime pagine non vi sono che lutti e rassegnazi­one.

Ma per Sepe la faccenda è diversa: deve averla troppo amata per lasciarla com’era, luminosa e pura. La storia individual­e e, se si vuole, familiare, diventa un pezzo di storia comune, appunto americana. Quella ragazza che resiste ma invero al padre non si ribella mai, qui diventa una suffragett­a, un campione della lotta delle donne per la parità dei diritti, negli anni tra le fine della guerra di Secessione e i primi del Novecento. È una lotta, dice Sepe, contro una società «ingenua, puritana e violenta» e contro un padre «integerrim­o» (ma in James niente altro che prudente e sapiente).

Nello spettacolo questa lotta è, vorrei dire, a ritmo di danza: «esecuzioni e feste nazionali, canzoni e quadriglie, solennità religiose e apparizion­i dei familiari defunti»: uno spettacolo travolgent­e, scandito su tempi musicali inesorabil­i (a cura di Davide Mastrogiov­anni), con interpreti perfetti, tra gli altri Pino Tufillaro e Federica Stefanelli, Guido Targetti e Adele Tirante.

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Interpreti Da sinistra, Sonia Bertin, Emanuela Panatta, Pino Tufillaro, Federica Stefanelli, Guido Targetti e Pietro Pace

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