Potenza da record, la F1 abbatte il muro dei 1.000 cavalli
Prestazioni massime unite ad affidabilità e bassi consumi: la sfida tecnologica dell’ibrido è vinta
Emozioni potenti. La Formula 1 varca frontiere selvagge, da tempo non si vedevano monoposto così estreme. Cadono i record sul giro e quelli di potenza, l’era dei mille cavalli è già realtà. In un mondo gelosissimo dei suoi segreti nessuno dichiara nulla, ma da alcune rilevazioni effettuate da aziende fornitrici al sabato nella lotta per la pole, durante i primi tre Gp della stagione, emergono dati paurosi. Mercedes e Ferrari sono già in grado di spremere i loro motori oltre quel numero tondo che rappresenta plasticamente il concetto di prestazione massima. Perché bucare il muro dei mille su macchine da 728 chilogrammi è sfida da far tremare i polsi agli ingegneri. È servito il quarto anno della Formula ibrida per comprendere le potenzialità e i limiti dell’attuale tecnologia: benzine speciali, raffinati sistemi a iniettori multipli e una sempre più precisa gestione delle unità elettriche sono dietro all’escalation di potenza.
L’anno scorso le forze in campo dicevano Mercedes vicinissima ai 1.000, Ferrari 960, Renault 920 e Honda 880. Ora la crescita della power unit del Cavallino è accreditata in 50 cv, quella tedesca è ancora un po’ superiore, ma siamo su valori molto simili. Come dimostra l’equilibrio in pista. Gli altri due costruttori, alle prese con problemi di varia natura, sono ancora ingiudicabili. I giapponesi poi sono talmente messi male da aver collezionato con Alonso e Vandoorne quattro ritiri fra Australia, Cina e Bahrein.
I picchi più elevati però possono essere raggiunti soltanto in qualifica per pochi secondi, mentre in gara la potenza è ridotta in nome dell’affidabilità e del risparmio di carburante. E siccome la Formula 1 non è una corsa fra dragster, la differenza fra vincitori e sconfitti la fanno migliaia di elementi, pilota incluso.
Ma si tratta comunque di un miracolo ingegneristico, perché dentro alle pance in carbonio pulsano motori extra small: sei cilindri a V turbocompressi di soli 1.6 litri, la cilindrata di una Golf per capirci. Con il regolamento che fissa dei paletti precisi: il consumo per un intero Gp (circa 300 km) deve essere di 105 kg, pari a 142 litri di benzina. Ma per i tecnici la missione più impegnativa è un’altra: progettare motori ultra-resistenti, capaci di percorrere 4 mila km circa. In venti gare se ne possono usare soltanto quattro, dal quinto scattano le penalità con le retrocessioni in griglia. Anche su questo terreno si gioca il confronto mondiale fra Ferrari e Mercedes: nel campionato 2016 sia Lewis Hamilton che Sebastian Vettel hanno pagato a caro prezzo noie meccaniche e imprevisti.
Guasti e fumate bianche erano la regola negli anni Ottanta, all’epoca dei «mostri». Come la Brabham BT52 con la quale Nelson Piquet conquistò il titolo nel 1983: il quattro cilindri 1.500 cc della Bmw, nelle sue evoluzioni più esasperate per le qualifiche, arrivò ben oltre quota 1.200. Peccato che reggesse giusto pochi chilometri prima di fondersi. Ivan Capelli ricorda un test sulla BT52 a Brands Hatch: «Schiacciavi sull’acceleratore e non succedeva nulla, poi all’improvviso arrivava la sberla, violentissima, del turbo. Dopo qualche giro rimasi pietrificato, fu un’esperienza sconvolgente. Al rientro ai box l’ingegnere di pista mi faceva segno di scendere mentre io, fermo, continuavo ad aggrapparmi al volante. Ancora incredulo per le prestazioni di quella macchina».