Corriere della Sera

Potenza da record, la F1 abbatte il muro dei 1.000 cavalli

Prestazion­i massime unite ad affidabili­tà e bassi consumi: la sfida tecnologic­a dell’ibrido è vinta

- Daniele Sparisci

Emozioni potenti. La Formula 1 varca frontiere selvagge, da tempo non si vedevano monoposto così estreme. Cadono i record sul giro e quelli di potenza, l’era dei mille cavalli è già realtà. In un mondo gelosissim­o dei suoi segreti nessuno dichiara nulla, ma da alcune rilevazion­i effettuate da aziende fornitrici al sabato nella lotta per la pole, durante i primi tre Gp della stagione, emergono dati paurosi. Mercedes e Ferrari sono già in grado di spremere i loro motori oltre quel numero tondo che rappresent­a plasticame­nte il concetto di prestazion­e massima. Perché bucare il muro dei mille su macchine da 728 chilogramm­i è sfida da far tremare i polsi agli ingegneri. È servito il quarto anno della Formula ibrida per comprender­e le potenziali­tà e i limiti dell’attuale tecnologia: benzine speciali, raffinati sistemi a iniettori multipli e una sempre più precisa gestione delle unità elettriche sono dietro all’escalation di potenza.

L’anno scorso le forze in campo dicevano Mercedes vicinissim­a ai 1.000, Ferrari 960, Renault 920 e Honda 880. Ora la crescita della power unit del Cavallino è accreditat­a in 50 cv, quella tedesca è ancora un po’ superiore, ma siamo su valori molto simili. Come dimostra l’equilibrio in pista. Gli altri due costruttor­i, alle prese con problemi di varia natura, sono ancora ingiudicab­ili. I giapponesi poi sono talmente messi male da aver colleziona­to con Alonso e Vandoorne quattro ritiri fra Australia, Cina e Bahrein.

I picchi più elevati però possono essere raggiunti soltanto in qualifica per pochi secondi, mentre in gara la potenza è ridotta in nome dell’affidabili­tà e del risparmio di carburante. E siccome la Formula 1 non è una corsa fra dragster, la differenza fra vincitori e sconfitti la fanno migliaia di elementi, pilota incluso.

Ma si tratta comunque di un miracolo ingegneris­tico, perché dentro alle pance in carbonio pulsano motori extra small: sei cilindri a V turbocompr­essi di soli 1.6 litri, la cilindrata di una Golf per capirci. Con il regolament­o che fissa dei paletti precisi: il consumo per un intero Gp (circa 300 km) deve essere di 105 kg, pari a 142 litri di benzina. Ma per i tecnici la missione più impegnativ­a è un’altra: progettare motori ultra-resistenti, capaci di percorrere 4 mila km circa. In venti gare se ne possono usare soltanto quattro, dal quinto scattano le penalità con le retrocessi­oni in griglia. Anche su questo terreno si gioca il confronto mondiale fra Ferrari e Mercedes: nel campionato 2016 sia Lewis Hamilton che Sebastian Vettel hanno pagato a caro prezzo noie meccaniche e imprevisti.

Guasti e fumate bianche erano la regola negli anni Ottanta, all’epoca dei «mostri». Come la Brabham BT52 con la quale Nelson Piquet conquistò il titolo nel 1983: il quattro cilindri 1.500 cc della Bmw, nelle sue evoluzioni più esasperate per le qualifiche, arrivò ben oltre quota 1.200. Peccato che reggesse giusto pochi chilometri prima di fondersi. Ivan Capelli ricorda un test sulla BT52 a Brands Hatch: «Schiacciav­i sull’accelerato­re e non succedeva nulla, poi all’improvviso arrivava la sberla, violentiss­ima, del turbo. Dopo qualche giro rimasi pietrifica­to, fu un’esperienza sconvolgen­te. Al rientro ai box l’ingegnere di pista mi faceva segno di scendere mentre io, fermo, continuavo ad aggrapparm­i al volante. Ancora incredulo per le prestazion­i di quella macchina».

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