I sogni perduti dei ragazzi dell’Est
Il racconto disperato e poetico di una generazione a cavallo della caduta del Muro
Sappiamo che cosa ha significato la caduta del Muro di Berlino per la Germania e per l’Europa. Un momento fatidico, legato una volta tanto non a una catastrofe ma a una promessa — un passaggio dal buio alla luce. Di tanto in tanto un film rievoca per noi gli anni lugubri della Ddr (Le vite degli altri, Goodbye, Lenin!, Il ponte delle spie) e quando si va a Berlino è d’obbligo la visita allo Haus am Checkpoint Charlie, con le storie improbabili e tristissime di coloro che cercavano di fuggire a Ovest. Sì, sappiamo che cosa ha significato l’abbattimento del Muro, pensiamo di saperlo almeno. Finché arriva un libro — in Italia con un ritardo di dieci anni — che fornisce una versione alternativa a quella rassicurante che conosciamo, un libro che accende un faro impietoso su un’umanità marginale, per la quale la riunificazione non ha coinciso affatto con l’avvento di un mondo migliore, bensì con la scivolata dentro un precipizio ancora più tetro.
Nel 1989 Clemens Meyer aveva dodici anni. Ne aveva ventinove quando ha pubblicato in Germania Als wir träumten, Eravamo dei grandissimi (Keller editore), un romanzo sulla caduta del Muro dove la caduta del Muro non compare mai. Tutto si svolge prima di quel passaggio oppure dopo. Il 9 novembre 1989 è uno spartiacque invisibile nella vita dei protagonisti, una linea d’ombra a malapena menzionata ma sempre presente per il lettore, tanto più decisiva quanto più si protrae la sua assenza dalle pagine. E le pagine sono parecchie, seicento, scandite in una trentina di capitoli ognuno dei quali è all’apparenza indipendente dagli altri, eppure gli è strettamente legato, perché necessario all’idea compositiva maestosa che governa la storia. In un certo senso si potrebbe definire Eravamo dei grandissimi un romanzo di formazione, perché parla di bambini cresciuti nella Ddr che si ritrovano adolescenti e poi adulti nella Germania unita. Perché racconta dell’amicizia fra loro, delle scazzottate e dei primi amori. Ma può darsi che un romanzo di formazione preveda per i suoi personaggi il raggiungimento (o almeno il perseguimento) di qualcosa, una forma parziale di saggezza, mentre i «grandissimi» di Meyer vanno solo incontro alla sconfitta, sempre più grave, sempre più torva. Walter, Rico, Mark, Stephan detto «Pitbull» e Paul: sono questi i nomi. Di loro, della loro banda, ci racconta Daniel Lenz, con una voce dolente e rabbiosa, ingenua e immaginifica, la voce di un Holden Caulfield della periferia di Lipsia, che è il vero miracolo di quest’opera. Da bambini, con il Muro ancora in piedi, Daniel e i suoi sono dei «pionieri» forgiati dal sogno socialista. A scuola, durante un’esercitazione di difesa, si legano al collo dei cartelli che riportano i nomi delle ferite — «addome», «lacerazione dei tessuti molli», «ustioni» — e vengono soccorsi dalle bambine nel ruolo di crocerossine. Disinnescano mine di fantasia fabbricate con palloncini chiusi dentro scatole piene di aghi, gridano «Sempre pronti!» portandosi la mano tesa alla testa e di nascosto si ingozzano di orsetti Haribo, che la madre di Walter compra al confine. Non sognano le meraviglie dell’Ovest, quello è un sogno che appartiene agli adulti, per loro l’infanzia dorata è lì, nella cupezza della Ddr. Ma infine il Muro cade, la libertà dilaga anche nei sobborghi di Lipsia e tutto cambia. «Mi ballano in testa i ricordi, no, non dei ricordi qualsiasi, ma quelli dopo la magnifica caduta del Muro, quando siamo, come dire... venuti in contatto». E così i pionieri «vengono in contatto». Soprattutto con il male. Diventano dei ladruncoli di supermercati, perché vogliono procurarsi delle pizze surgelate da scaldare in quel prodigio della modernità che è il forno a microonde. Rubano le prime macchine soltanto per scorrazzare un po’ in giro. Circuiscono una vecchia cieca perché hanno bisogno di soldi per la birra. Si sbronzano dalla mattina alla sera infatti, di Apfelkorn e whisky scadente, e poi fanno a botte con tutti, con gli skinhead, con i punk, con gli africani, con i tifosi della squadra di calcio avversaria. Vengono arrestati e rilasciati in continuazione e hanno appena quindici anni. Ma «va’ a farlo capire al giudice. Sono robe di strada, è guerra».
Scorribande, sbronze, violenza e conversazioni vuote di maschi gradassi, poi ancora whisky e tatuaggi e droga e spranghe di ferro; genitori che menano i figli e figli che menano i genitori. Dopo qualche decina di pagine diventa quasi ipnotico. Mai noioso però, perché il racconto di Daniel è così avvolgente da convincerti che la periferia dimenticata in cui vive sia tutto il mondo che esiste. Certi capitoli balzano in avanti all’improvviso: allora i «grandissimi», quei pochi sopravvissuti, hanno già trent’anni e le loro detenzioni non sono più nell’istituto minorile ma in un carcere vero e proprio. I furti di auto sono diventati rapine a mano armata e al posto delle spranghe ci sono le pistole. Nessuna redenzione nel mezzo. L’unica costante è il modo che Daniel, Rico, Paul e gli altri hanno di guardare le ragazze, come oggetti sessuali oppure da venerare, senza la possibilità di una terza via, proprio come a quindici anni.
Forse è solo una coincidenza. Forse Daniel e i «grandissimi» sarebbero diventati dei delinquenti anche con il Muro in piedi, può darsi che il loro destino fosse segnato comunque, dalla povertà, dall’emarginazione. Ma è certo è che l’Occidente libero non li ha salvati, nemmeno un po’. Clemens Meyer ci racconta la riunificazione della Germania come l’inferno. I suoi giovani protagonisti ricordano per molti aspetti la «paranza» di Roberto Saviano, ma se i bambini della paranza perseguono uno scopo nella loro educazione criminale (il potere, per lo meno), qui è assente anche quell’ambizione. La violenza è fine a se stessa. È onnipresente, inevitabile, neutrale, come l’aria che si respira.
Di tanto in tanto, però, nelle lunghe notti passate per strada, Daniel alza gli occhi verso il cielo e cerca il Grande Carro. È l’unica costellazione che conosce, probabilmente la sola visibile dalla città, e splende lontanissima. Eppure c’è. Il Grande Carro è la sua speranza irraggiungibile e che tuttavia non è mai spenta. Ogni volta che nel libro Daniel guarda il cielo, il mio cuore ha avuto un sussulto. E ogni volta ho pensato ecco, è esattamente questo che un romanzo indimenticabile dovrebbe fare: misurare la distanza siderale che passa fra i grandi cambiamenti della storia e i destini tragici dei singoli uomini, e poi d’un tratto annullarla, grazie alla voce di un ragazzo di quindici anni che per non soccombere alla paura del mondo ripete come un mantra ai suoi amici: «Noi siamo dei grandissimi. Noi eravamo dei grandissimi».
Il 9 novembre 1989 è uno spartiacque invisibile nella vita dei protagonisti, una linea d’ombra
L’Occidente libero non ha salvato Daniel e i «grandissimi». La riunificazione è raccontata come l’inferno