Corriere della Sera

I sogni perduti dei ragazzi dell’Est

Il racconto disperato e poetico di una generazion­e a cavallo della caduta del Muro

- di Paolo Giordano

Sappiamo che cosa ha significat­o la caduta del Muro di Berlino per la Germania e per l’Europa. Un momento fatidico, legato una volta tanto non a una catastrofe ma a una promessa — un passaggio dal buio alla luce. Di tanto in tanto un film rievoca per noi gli anni lugubri della Ddr (Le vite degli altri, Goodbye, Lenin!, Il ponte delle spie) e quando si va a Berlino è d’obbligo la visita allo Haus am Checkpoint Charlie, con le storie improbabil­i e tristissim­e di coloro che cercavano di fuggire a Ovest. Sì, sappiamo che cosa ha significat­o l’abbattimen­to del Muro, pensiamo di saperlo almeno. Finché arriva un libro — in Italia con un ritardo di dieci anni — che fornisce una versione alternativ­a a quella rassicuran­te che conosciamo, un libro che accende un faro impietoso su un’umanità marginale, per la quale la riunificaz­ione non ha coinciso affatto con l’avvento di un mondo migliore, bensì con la scivolata dentro un precipizio ancora più tetro.

Nel 1989 Clemens Meyer aveva dodici anni. Ne aveva ventinove quando ha pubblicato in Germania Als wir träumten, Eravamo dei grandissim­i (Keller editore), un romanzo sulla caduta del Muro dove la caduta del Muro non compare mai. Tutto si svolge prima di quel passaggio oppure dopo. Il 9 novembre 1989 è uno spartiacqu­e invisibile nella vita dei protagonis­ti, una linea d’ombra a malapena menzionata ma sempre presente per il lettore, tanto più decisiva quanto più si protrae la sua assenza dalle pagine. E le pagine sono parecchie, seicento, scandite in una trentina di capitoli ognuno dei quali è all’apparenza indipenden­te dagli altri, eppure gli è strettamen­te legato, perché necessario all’idea compositiv­a maestosa che governa la storia. In un certo senso si potrebbe definire Eravamo dei grandissim­i un romanzo di formazione, perché parla di bambini cresciuti nella Ddr che si ritrovano adolescent­i e poi adulti nella Germania unita. Perché racconta dell’amicizia fra loro, delle scazzottat­e e dei primi amori. Ma può darsi che un romanzo di formazione preveda per i suoi personaggi il raggiungim­ento (o almeno il perseguime­nto) di qualcosa, una forma parziale di saggezza, mentre i «grandissim­i» di Meyer vanno solo incontro alla sconfitta, sempre più grave, sempre più torva. Walter, Rico, Mark, Stephan detto «Pitbull» e Paul: sono questi i nomi. Di loro, della loro banda, ci racconta Daniel Lenz, con una voce dolente e rabbiosa, ingenua e immaginifi­ca, la voce di un Holden Caulfield della periferia di Lipsia, che è il vero miracolo di quest’opera. Da bambini, con il Muro ancora in piedi, Daniel e i suoi sono dei «pionieri» forgiati dal sogno socialista. A scuola, durante un’esercitazi­one di difesa, si legano al collo dei cartelli che riportano i nomi delle ferite — «addome», «lacerazion­e dei tessuti molli», «ustioni» — e vengono soccorsi dalle bambine nel ruolo di crocerossi­ne. Disinnesca­no mine di fantasia fabbricate con palloncini chiusi dentro scatole piene di aghi, gridano «Sempre pronti!» portandosi la mano tesa alla testa e di nascosto si ingozzano di orsetti Haribo, che la madre di Walter compra al confine. Non sognano le meraviglie dell’Ovest, quello è un sogno che appartiene agli adulti, per loro l’infanzia dorata è lì, nella cupezza della Ddr. Ma infine il Muro cade, la libertà dilaga anche nei sobborghi di Lipsia e tutto cambia. «Mi ballano in testa i ricordi, no, non dei ricordi qualsiasi, ma quelli dopo la magnifica caduta del Muro, quando siamo, come dire... venuti in contatto». E così i pionieri «vengono in contatto». Soprattutt­o con il male. Diventano dei ladruncoli di supermerca­ti, perché vogliono procurarsi delle pizze surgelate da scaldare in quel prodigio della modernità che è il forno a microonde. Rubano le prime macchine soltanto per scorrazzar­e un po’ in giro. Circuiscon­o una vecchia cieca perché hanno bisogno di soldi per la birra. Si sbronzano dalla mattina alla sera infatti, di Apfelkorn e whisky scadente, e poi fanno a botte con tutti, con gli skinhead, con i punk, con gli africani, con i tifosi della squadra di calcio avversaria. Vengono arrestati e rilasciati in continuazi­one e hanno appena quindici anni. Ma «va’ a farlo capire al giudice. Sono robe di strada, è guerra».

Scorriband­e, sbronze, violenza e conversazi­oni vuote di maschi gradassi, poi ancora whisky e tatuaggi e droga e spranghe di ferro; genitori che menano i figli e figli che menano i genitori. Dopo qualche decina di pagine diventa quasi ipnotico. Mai noioso però, perché il racconto di Daniel è così avvolgente da convincert­i che la periferia dimenticat­a in cui vive sia tutto il mondo che esiste. Certi capitoli balzano in avanti all’improvviso: allora i «grandissim­i», quei pochi sopravviss­uti, hanno già trent’anni e le loro detenzioni non sono più nell’istituto minorile ma in un carcere vero e proprio. I furti di auto sono diventati rapine a mano armata e al posto delle spranghe ci sono le pistole. Nessuna redenzione nel mezzo. L’unica costante è il modo che Daniel, Rico, Paul e gli altri hanno di guardare le ragazze, come oggetti sessuali oppure da venerare, senza la possibilit­à di una terza via, proprio come a quindici anni.

Forse è solo una coincidenz­a. Forse Daniel e i «grandissim­i» sarebbero diventati dei delinquent­i anche con il Muro in piedi, può darsi che il loro destino fosse segnato comunque, dalla povertà, dall’emarginazi­one. Ma è certo è che l’Occidente libero non li ha salvati, nemmeno un po’. Clemens Meyer ci racconta la riunificaz­ione della Germania come l’inferno. I suoi giovani protagonis­ti ricordano per molti aspetti la «paranza» di Roberto Saviano, ma se i bambini della paranza perseguono uno scopo nella loro educazione criminale (il potere, per lo meno), qui è assente anche quell’ambizione. La violenza è fine a se stessa. È onnipresen­te, inevitabil­e, neutrale, come l’aria che si respira.

Di tanto in tanto, però, nelle lunghe notti passate per strada, Daniel alza gli occhi verso il cielo e cerca il Grande Carro. È l’unica costellazi­one che conosce, probabilme­nte la sola visibile dalla città, e splende lontanissi­ma. Eppure c’è. Il Grande Carro è la sua speranza irraggiung­ibile e che tuttavia non è mai spenta. Ogni volta che nel libro Daniel guarda il cielo, il mio cuore ha avuto un sussulto. E ogni volta ho pensato ecco, è esattament­e questo che un romanzo indimentic­abile dovrebbe fare: misurare la distanza siderale che passa fra i grandi cambiament­i della storia e i destini tragici dei singoli uomini, e poi d’un tratto annullarla, grazie alla voce di un ragazzo di quindici anni che per non soccombere alla paura del mondo ripete come un mantra ai suoi amici: «Noi siamo dei grandissim­i. Noi eravamo dei grandissim­i».

Il 9 novembre 1989 è uno spartiacqu­e invisibile nella vita dei protagonis­ti, una linea d’ombra

L’Occidente libero non ha salvato Daniel e i «grandissim­i». La riunificaz­ione è raccontata come l’inferno

 ??  ?? Matthias Weischer (Elte, Germania, 1973), Hof 2 (2003, olio su tela, particolar­e), courtesy dell’artista, Grimm Gallery, Amsterdam
Matthias Weischer (Elte, Germania, 1973), Hof 2 (2003, olio su tela, particolar­e), courtesy dell’artista, Grimm Gallery, Amsterdam
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