LE PAROLE E LA LIBERTÀ
INSULTI ONLINE E STEREOTIPI: COSÌ L’ODIO TRASFORMA I DISCORSI IN ARMI MORTALI L’appuntamento A Milano la seconda edizione del Festival dei Diritti Umani. Che mette l’accento sul potere (anche distruttivo) del linguaggio. E gli studiosi sono convinti che p
Li chiamano discorsi dell’odio. Sono quelli che rispondono a una logica ormai molto abituale in Rete: non sai cosa dire, ma sai come dirlo nel modo più pericoloso per colpire le fasce culturalmente più vulnerabili. Il Festival dei Diritti Umani non poteva che accendere una lampadina su un fenomeno ormai mondiale che da diverse prospettive sta facendo male alle nuove generazioni.
Il 4 maggio si parlerà di come combattere gli stereotipi e quindi spegnere sul nascere i potenziali rischi che gli «hate speech» seminano a mezzo Internet. Verranno proiettati film come #MyEscape di Elke Sasse e Nuovo Alfabeto Umano di Alessandro Mian e Alessandro Cattaneo davanti a una platea di studenti. Quindi di giovani. Quindi i destinatari innocenti che sempre più spesso abboccano alle trappole di linguaggio. «Questo fenomeno è figlio dello smarrimento di chi per reagire alle paure della crisi non ha i mezzi ma ha comunque accesso al sistema di comunicazione» spiega Karim Metref, educatore e ospite dell’incontro sugli hate speech.
Metref è nato in Algeria nel 1967. Ha fatto l’insegnante in pedagogie alternative e da giornalista si è specializzato in notizie e commenti sull’immigrazione. Un tema in cui l’odio in rete sfocia spesso in «fake news». «In questo mondo, gli hate speech sono uno sport nazionale più diffuso del calcio: l’esempio più classico è la montatura mediatica scatenata sui siti e social di tutto il mondo per raccontare come la causa dell’incremento delle aggressioni sessuali sia esclusivamente la nuova ondata migratoria». Non esistono numeri né statistiche in tal senso, «ma questo è il trend informativo percepito dalla gente — spiega Metref —. Fa parte della logica di sparare sempre sul più debole. E in questo sono corresponsabili anche le fonti di informazioni generaliste principali che avvallano queste strategie del terrore. Le bufale spesso partono proprio da lì. E sono proprio i giornali mainstream a dover tornare a mettere dei paletti che possano regolare anche l’informazione che viaggia sparsa nella Rete».
Il problema, verrebbe da dire, torna al tema dell’educazione. Una nuova ondata di analfabetismo. In forma diversa: si sa scrivere attraverso un computer, ma si fatica a capire quello che si legge. «Non credo che seguire l’esempio tedesco di affrontare questo tema emanando nuove leggi porti benefici» spiega Alessandro Lanni giornalista, ex caporedattore delle riviste Reset e Pagina99, che oggi collabora con l’Associazione Carta di Roma, per la quale scrive di rifugiati e immigrazione. «Credo che gli hate speech siano una tappa nel nuovo percorso di alfabetizzazione che passa dalle nuove forme di comunicazione. E non credo nemmeno che il rischio riguardi solo i più giovani, ma chiunque abbia poca lucidità in questo nuovo genere di relazioni» spiega Lanni che interverrà al Festival. Nascondersi dietro a un velo, che il più delle volte però ha lo spessore di un muro per far perdere le tracce di chi si muove in modo anonimo in Rete. «Sono riconoscibili o comunque rintracciabili attraverso i loro indirizzi ip. Ma dobbiamo ripartire dal problema di base che è la loro immaturità complessiva. I giovani che attraversano un periodo particolare della loro vita e mostrano queste reazioni aggressive hanno spesso lo stes- so approccio anche offline».
Difficile immaginarsi gli scenari. Da una parte la sempre maggiore diffusione dei social network ha ampliato l’eco dell’odio informativo. «Mi preoccupa che Facebook ad esempio sia diventato un mezzo così fondamentale anche nel mondo dell’informazione — continua Lanni —. Un sistema che procede per algoritmi e mostra solo una faccia delle notizie. Ma sono fiducioso sull’utilizzo che ne si fa: se saremo in grado di creare una consapevolezza massiccia anche grazie agli organi di informazione ufficiali, questo resterà solo un periodo storico. Un periodo di trasformazione con cui bisogna imparare ad avere a che fare. Ricordo che 25 anni fa si facevano discorsi simili sui rischi generati dalle nuove tv commerciali».
Il pericolo maggiore? «Credo — conclude il giornalista — che la stessa politica e i partiti che usano i propri social in modo populista e spregiudicato per ottenere consenso siano comunque più pericolosi dei ragazzini che cercano like attraverso un cattivo messaggio».
Un esempio classico sono le montature sulle ondate migratorie Karim Metref