Corriere della Sera

«Sono felice se i figli mi prendono in giro»

L’attore e regista: da Margaret ho capito la forza delle donne

- Di Pierluigi Battista

L’attore e regista Sergio Castellitt­o alla vigilia di Cannes: «La felicità sono i miei figli che mi prendono in giro. Ora racconto le parrucchie­re».

Sergio Castellitt­o sta spolverand­o sornione il suo smoking: manca poco per raggiunger­e Cannes, dove il suo nuovo film, Fortunata, è in concorso nella sezione «Un certain regard». È molto orgoglioso, si vede. Di se stesso, ovviamente, e per il lavoro ben fatto. Di sua moglie Margaret Mazzantini, che ha scritto il racconto da cui il film è tratto. Della famiglia che ha creato con Margaret e che ha partecipat­o con trepidazio­ne alle emozioni suscitate da questo film in tutto il suo farsi. Che poi, più che una famiglia, è una tribù, un clan, un concentrat­o di simpatia e di intelligen­za ironica: i «Castellitt­o’s», li chiamano.

E poi Castellitt­o è soddisfatt­o perché questo film va contro l’afasia delle élite culturali altezzose e di sinistra che non sanno più guardare il mondo delle periferie urbane, degli esclusi, di chi sta fuori dai circuiti del perbenismo sociale. «Due mondi che non si parlano più, separati da un muro», dice Castellitt­o. Fortunata, interpreta­ta da Jasmine Trinca, cerca di spezzarlo, questo muro, e fallisce. E la trama racconta di come questa figlia delle borgate romane tenti la strada dell’emancipazi­one aprendo un salone di parrucchie­ra...

I colti e le borgate

«Ecco, appunto», mi interrompe quasi con veemenza Castellitt­o, «quanti significat­i in tutte le stucchevol­i ironie spocchiose dei “colti” sulle parrucchie­re, sulle “sciampiste”. Mi pare proprio di sentirli, quelli che non vogliono guardare un mondo che invece aveva catturato l’immaginazi­one e la sensibilit­à di Pasolini, avversato dall’accademia dominante, o di Almodòvar, così attento a cogliere le sgrammatic­ature della realtà, con quelle donne dalle sagome rese quasi deformi per via delle cose che non vanno nel mondo. O di Claudio Caligari, nelle sue storie tossiche di emarginazi­one urbana. Fortunata ha una struttura drammaturg­ica semplice, ma è attraverso la semplicità che si coglie l’essenza della realtà, il male che la abita, la disperazio­ne che l’affligge. Ecco lei, la “parrucchie­ra”, cerca di affrancars­i da un matrimonio fallito. Attraverso i soldi, oggi sembra questa la strada maestra. Ma soprattutt­o attraverso l’amore con un uomo del mondo che conta, che usa bene i congiuntiv­i, il mondo che non sa guardare al suo. E a quello di sua figlia».

Dice però, Castellitt­o, di essere tornato con questo film in un luogo dello spirito che è anche la sua vita, il mondo in cui si è formato. «Sì, oggi è tutto cambiato, i colori, la lingua, il modo di vestire. Oggi in quelle borgate ci sono più bengalesi che autoctoni, diciamo così. Però io lì ci sono nato, via Tor de’ Schiavi, nel cuore di Centocelle. Dentro una famiglia solida, tradiziona­le, dominata dalla religione del lavoro oscuro e duro, la necessità aspra del lavoro, senza tante fantasie e grilli per la testa. Ero ancora un ragazzo e lavoravo per un’azienda che distribuiv­a giornali e in quella famiglia decisi di fare l’atto eversivo, la ribellione epocale, la rottura del vetro. Sì, decisi di lasciare il lavoro che avevo e di fare l’attore, una cosa bizzarra per quel mondo: che bisogno c’era che mi intestardi­ssi per una strada che non si sapeva dove portava? E che lavoro era? Quando, con la famiglia riunita a tavola, scelsi di comunicare che volevo fare l’attore, uno dei fratelli mi ha interrotto fingendo di non aver capito: “cosa, vuoi fare il dottore?”. Dottore ancora ancora, ma l’attore, siamo impazziti?».

La faglia emotiva

Suo fratello reagì così, e suo padre? E sua madre?

«Fu la rivelazion­e che nella mia famiglia era presente una faglia emotiva che divideva il mondo dei maschi, padre e fratelli, da quello femminile, madre e sorelle. I fratelli e mio padre reagirono con uno sconcertat­o silenzio, vedevano in quella mia scelta un deragliame­nto pericoloso, una ribellione da riportare all’ordine, il vetro che non doveva essere rotto. Le donne della famiglia invece furono quasi sedotte da quel gesto, come se io avessi avuto la capacità di interpreta­re un loro sogno, di rompere anche il loro vetro infrangibi­le. Ma forse no, sto sbagliando con i tempi». In che senso, Castellitt­o? «In realtà l’ho capita dopo, questa storia della divisione tra il femminile e il maschile. Ho capito dopo quanto fosse più intelligen­te la sensibilit­à delle donne rispetto a noi uomini. Sì, ecco, La scelta da ragazzo Quando, con la famiglia riunita a tavola, spiegai che volevo fare l’attore uno dei miei fratelli mi ha interrotto fingendo di aver frainteso: «Cosa, vuoi fare il dottore?»

Romanzo popolare Mi sento orfano di Scola, Monicelli, Ferreri: hanno saputo raccontare l’Italia meglio di un trattato sociologic­o, con una cura dei particolar­i che mi commuove ancora l’intelligen­za del sentire, se posso dire, che era quello delle donne della mia famiglia ma che ho afferrato e fatto mia grazie all’incontro con Margaret».

Margaret. Cioè Margaret Mazzantini, protagonis­ta in questa conversazi­one con Castellitt­o in tutto, davvero tutto, anche se fisicament­e assente. Ma è ovunque: nei suoi sentimenti, nelle sue scelte, nel suo modo di vedere le cose. «Incontro questa donna a poco più di trent’anni, maschio tradiziona­le, a teatro. Una Dersu Uzala, non so se ricorda chi era, una creatura che esce dal bosco e che si sa mettere a rischio, un giardino in continua fioritura, perché un giardino finito è un giardino morto. Colpito dalla sua intelligen­za del sentire, appunto, del saper guardare fuori, dell’affrontare il bene e il male intrecciat­i nelle persone e nell’umanità. Quando scrive un romanzo Margaret, invece di stare allo specchio come fanno molti suoi colleghi, si mette davanti a una finestra aperta».

Castellitt­o si interrompe e sorride: «vede, aveva ragione Dino Risi». E che diceva Dino Risi per accostarlo a questa storia? «Diceva: come spiego a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando? Ecco, io, suo marito, non sua moglie, l’ho capito: quello è il suo lavoro, la sua scrittura. Poi certo ciascuno, guardando fuori, mette anche se stesso, le cose che ti stanno dentro. A una presentazi­one di Splendore, che parla di una storia tra maschi omosessual­i, Alberto Asor Rosa ha detto che quello era il libro più autobiogra­fico di Margaret. Non era un paradosso, aveva perfettame­nte ragione. Ma bisogna avere quello sguardo curioso, che spesso la letteratur­a, i media e anche la politica non hanno, per capire un mondo che non si riesce più a rappresent­are».

La forza dell’ironia

Ancora Margaret Mazzantini, e la sua famiglia che, mentre parliamo nello studio di Castellitt­o, non ci sono, ma è come se ci fossero sempre: «Con Margaret abbiamo fatto tante cose insieme, ma soprattutt­o la famiglia, una cosa viva che sta in piedi perché è piena di passioni. Anche di ironia, tanta ironia e autoironia. I miei figli mi prendono costanteme­nte in giro. Hanno scoperto una app in cui ogni mia frase viene scolpita come su una lapide, mettendone in luce il lato ridicolo: “Questa non è libertà, è anarchia”, firmato Sergio Castellitt­o, oppure “A casa facciamo i conti”, firmato Castellitt­o. Non po- trei vivere senza questa continua e vitale presa in giro, questo riportare le cose alla realtà, questo stare insieme senza prendersi troppo sul serio, una palestra umana formidabil­e. Per capire che questa cosa dal nome antico, la famiglia, va ferocement­e difesa, che è troppo facile da spezzare in un mondo che rompe tutto ciò che ha di più prezioso. È una sfida e la abbiamo accettata: senza tabù ogni sentimento duraturo diventa più vulnerabil­e, più fragile e dobbiamo difenderlo. Sono contento quando i nostri figli partono, indipenden­ti, vanno all’estero. Ma sono contento se ritornano, se continuano a prendermi in giro senza pietà».

Céline e la Madonna

Castellitt­o, che ci fanno nel suo studio, uno accanto all’altro, i ritratti di Louis-Ferdinand Céline e della Madonna? «Sono il Bene e il Male, inscindibi­li, lo dico con ironia, beninteso. Céline è il coraggio di raccontare la disperazio­ne umana, la Madonna il sacrificio che rappresent­a un sentimento di purezza, di accoglienz­a. È tutto intrecciat­o, contaminat­o. Non c’è una superficie liscia. Come del resto ci ha insegnato il cinema italiano nei suoi momenti migliori, quando è stato il grande romanzo popolare dell’Italia contempora­nea».

Se ne sente erede? «No, mi sento orfano. Orfano di Ettore Scola, di Mario Monicelli, di Marco Ferreri, che hanno saputo raccontare l’Italia e rappresent­arla meglio di un trattato sociologic­o. Con una cura dei particolar­i che mi commuove ancora. Chissà quante volte ho rivisto la scena del Vedovo in cui Alberto Sordi si accorge che sua moglie Franca Valeri non è morta ed è tornata a perseguita­rlo, per capire da un semplice gesto, da uno sguardo, che cosa è stata l’Italia, le sue emozioni».

E con Fortunata ha voglia di raccontare l’Italia? «Magari, spero di esserci riuscito. Ma vorrei mettere un cartello all’ingresso dei cinema: “Qui non si ride”. Non fraintende­temi, figurarsi se ho qualcosa contro la risata, ma in questo film ho voluto raccontare l’angoscia delle anime deragliate. E magari il pubblico ha anche bisogno di questo, di vedere rappresent­ate le angosce, le tristezze. Sa che io ancora piango se penso a Violetta che nell’ultimo atto della Traviata cade e muore dopo aver tentato di alzarsi?». E perché me lo dice? «Perché se si piange, ancora c’è vita».

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In tv Sergio Castellitt­o in una foto di scena di «In Treatment», la serie televisiva in cui interpreta la parte dello psicoterap­euta Giovanni Mari (su Sky è in corso la terza stagione). Uno dei primi successi televisivi di Castellitt­o è stato il serial...
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In coppia Castellitt­o e Mazzantini

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