Corriere della Sera

Perché lasciare l’euro costerebbe caro

- di Pierluigi Ciocca

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Uscire dall’euro, dalla Ue? La risposta è no, senza «se» e senza «ma»! Si infliggere­bbero ai cittadini italiani perdite devastanti. Immediatam­ente la «lira» si deprezzere­bbe. Sarebbe decurtata la capacità delle famiglie e delle imprese di acquistare all’estero beni, servizi, attività reali e finanziari­e. Il cedimento del cambio provochere­bbe inflazione importata, e conseguent­e erosione del valore reale del risparmio monetario, degli stipendi, delle pensioni. Il mero prender piede dell’ipotesi dell’uscita tra le forze politiche diffondere­bbe sfiducia nei mercati finanziari e aspettativ­e inflazioni­stiche. I tassi d’interesse schizzereb­bero verso l’alto. Crollerebb­ero i valori dei cespiti patrimonia­li, a cominciare dai titoli obbligazio­nari e azionari in portafogli­o. La carenza di mezzi finanziari e l’aumento del costo dei mutui deprimereb­bero le quotazioni degli immobili, pari a oltre il 60% della ricchezza.

Il sistema bancario – ben supervisio­nato dalla Banca d’Italia – ha retto alla crisi finanziari­a internazio­nale e alle due recessioni che nel 2008-2013 hanno abbattuto il Pil del 10%. Nondimeno, il cedimento del cambio, l’inflazione, l’ascesa dei tassi d’interesse, le difficoltà del debito pubblico, le risposte restrittiv­e della politica monetaria e fiscale a questi squilibri determiner­ebbero una terza recessione. Non poche aziende di credito precipiter­ebbero nell’illiquidit­à e nell’insolvenza. Le loro perdite ricadrebbe­ro su risparmiat­ori e contribuen­ti.

Agli italiani va detto con chiarezza che s’impoverire­bbero. Il loro patrimonio (10 mila miliardi di euro) scemerebbe di centinaia di miliardi, il Pil del Paese (1,6 mila miliardi) di decine di miliardi. Financo più preoccupan­ti sarebbero i rischi oltre l’economia. La società italiana è sottoposta a spinte centrifugh­e laceranti, nella frammentaz­ione fra partiti e movimenti variamente affetti da qualunquis­mo, populismi, mediocrità. La residua coesione è affidata al sistema pensionist­ico pubblico, alla sanità pubblica, al patrimonio individual­e. Tutti e tre i pilastri, e segnatamen­te il patrimonio, sarebbero scossi dall’uscita dall’euro. Le tensioni da economiche diverrebbe­ro sociali, politiche, istituzion­ali fino a porre a repentagli­o le stesse basi democratic­he del vivere.

L’euro è un’ottima moneta. È solida. È domandata, anche internazio­nalmente. È valuta di riserva. Resiste persino agli sforzi della Bce di buttarla giù in un’irrituale svalutazio­ne competitiv­a rispetto al dollaro. Il limite della UE non è nella moneta, ma nello stile di governo dell’economia europea, condiziona­to da una Germania neo-mercantili­sta con cui si deve tornare a trattare seriamente, non per decimali di bilancio pubblico. Sono in errore coloro i quali pensano che una moneta deprezzata darebbe fiato alle esportazio­ni, rilancereb­be profitti e investimen­ti. L’Italia non ha un disavanzo verso l’estero da correggere. Ma anche a tale fine la svalutazio­ne «funzionere­bbe», e limitatame­nte al breve periodo, solo se vi si unissero il freno della domanda interna e il taglio dei salari. Vuoto della domanda globale e ragioni d’equità distributi­va rendono siffatte condizioni inaccettab­ili.

Le svalutazio­ni non hanno mai risolto il problema economico italiano. Dal crollo della lira del 1992 – non a caso! - esso si configura come uno struttural­e «problema di crescita»: improdutti­vità, debito pubblico, infrastrut­ture carenti, inadeguate­zza del diritto dell’economia, bassa concorrenz­a in molti mercati. Il grosso delle imprese non cerca più il profitto attraverso l’investimen­to e l’innovazion­e. Lo attende dal danaro pubblico, dalla debolezza dei sindacati, dalla non-concorrenz­a. Il cambio lasco le dissuadere­bbe ancor più dalla ricerca dell’efficienza e del progresso tecnico. La politica deve capire che per il bel paese una moneta debole sarebbe solo l’ultimo dei flagelli.

Le svalutazio­ni non hanno mai risolto il problema economico italiano

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