Corriere della Sera

UN FATALISMO DA PREVENIRE

- di Luigi Ripamonti

«Ma lei non conosce proprio nessuno?» Questa domanda se l’è sentita rivolgere una persona che conosciamo da un “compagno di coda” in un ospedale, mentre aspettava una visita (ennesima) a cui affidava la speranza di essere convocato finalmente per un intervento per il quale era in lista d’attesa da molto tempo in altre cliniche. Tornando a casa, deluso, ne ha parlato con alcuni amici e si è sentito dare dell’ingenuo. «Ma è ovvio — gli hanno ribadito —, lo sanno tutti che funziona così, datti una mossa e fai qualche telefonata».

Senza entrare nel caso specifico (di cui andrebbe valutata l’effettiva priorità) colpisce la domanda (con successive conferme), che esprime fatalismo e sfiducia nelle istituzion­i (quelle sanitarie nel caso specifico).

Il problema delle liste d’attesa in sanità è complesso e deve fare i conti con una realtà che non può essere banalizzat­a, però esistono precisi diritti, che non si possono esercitare se non si conoscono. Per questo abbiamo pensato di proporre nelle prossime pagine una sintesi almeno di quelli più semplici e fondamenta­li. Impadronir­sene è solo un primo passo, ma necessario, per cominciare a capire che cosa si può chiedere (o pretendere), a chi, quando e come.

Nei fatti, oggi, di fronte alla proposta di date lontanissi­me per un appuntamen­to chi può salda direttamen­te (o attraverso un’assicurazi­one) le prestazion­i, siano esse visite, procedure diagnostic­he o terapie, e chi non può aspetta. Però chi paga le tasse (e quindi il mantenimen­to del Sistema Sanitario Nazionale) dovrebbe avere comunque il diritto a tempi di diagnosi e cura ragionevol­i.

«Non è colpa di nessuno se non si riesce», potrebbero rispondere in molti: «che cosa possono fare i singoli di fronte a richieste senza requie, specie nei centri che garantisco­no cure ad alta specializz­azione?».

I singoli probabilme­nte poco a fronte di un incessante taglio di posti letto e di un perdurante mancato ricambio del personale sanitario in uscita. Ci si può appellare al massimo al loro impegno onesto e alla loro coscienza.

Però non è altrettant­o vero che non si possa fare nulla a livello istituzion­ale e organizzat­ivo. L’esempio dell’Emilia-Romagna, di cui si scrive in questo numero di Corriere Salute, lo dimostra. Cercare di imitarlo potrebbe “curare” certe forme di scoraggiam­ento e di fatalismo. Poi, certo, le istituzion­i non sono fatte da entità incorporee, ma da tanti singoli.

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