Corriere della Sera

PERCHÉ UN LEADER RICORRE ALLE PRIMARIE APERTE

Scenario I recenti risultati ottenuti da Matteo Renzi fanno riflettere sull’utilità di questo strumento di votazione che coinvolge anche i non iscritti: l’importante è sempre garantirne un corretto svolgiment­o

- di Michele Salvati

Le primarie sono un aspetto importante della breve storia dell’Ulivo e del Partito democratic­o e di seguito mi atterrò all’uso di chiamare primarie anche consultazi­oni che non hanno come obiettivo quello di scegliere il candidato di un partito ad una carica istituzion­ale: impropriam­ente sono chiamate primarie anche consultazi­oni aperte a iscritti (primarie chiuse) e non iscritti (primarie aperte) per scegliere cariche di partito. In particolar­e il segretario nazionale, com’è appena avvenuto per la seconda volta con Renzi e in precedenza con Bersani e Veltroni.

Faccio così per sottolinea­re che questo uso improprio del termine è strettamen­te legato alla crisi della tradiziona­le democrazia del «partito-associazio­ne», nella quale i soci (gli iscritti) eleggono a maggioranz­a e a cascata gli organi dirigenti: dai segretari di circolo sino alla direzione nazionale, da questa alla segreteria e da ultimo al segretario.

È un modello di democrazia che funziona male, soprattutt­o in momenti di incertezza e mutamento: non assicura la prevalenza di una leadership attraente per gli stessi elettori che simpatizza­no con le politiche sostenute dal partito e con i suoi orientamen­ti di fondo. Gli iscritti — i soci — sono pochi, sempre di meno; i simpatizza­nti sono potenzialm­ente assai più numerosi. Gli iscritti sono appassiona­ti di politica, diversi dai simpatizza­nti che se ne occupano occasional­mente. Gli iscritti sono spesso eredi di vecchie divisioni culturali, di correnti e fazioni radicate nel passato. Una primaria aperta è prima di tutto un test di popolarità di potenziali leader condotto tra chi simpatizza per un certo orientamen­to politico generale. (Un piccolo inciso: ovviamente mi riferisco a primarie serie, non a quelle dei Cinque Stelle, dove un candidato è scelto — salvo ripensamen­to del leader — con poche decine di click a livello

Ragioni della scelta In ogni caso l’uso è legato alla crisi della tradiziona­le democrazia del partito-associazio­ne

locale e poche migliaia a livello nazionale.)

Un leader convinto di attrarre sulla sua persona e sul suo programma un ampio consenso, che intende richiamars­i al partito e alla sua storia ma sarebbe soccombent­e nella democrazia del partitoass­ociazione o in primarie riservate a isoli iscritti, avrà tutto l’ interesse a insistere per primarie aperte.

Nel Partito democratic­o, l’eredità dell’Ulivo — dove le primarie aperte erano state l’espediente per rendere popolare e condivisa la scelta di Prodi come candidato alla presidenza del Consiglio — e poi lo statuto del partito hanno consentito a Renzi di utilizzarl­e per la sua ascesa a se- gretario. Questa via non era disponibil­e in Gran Bretagna dove le primarie erano riservate ai soli iscritti e questi hanno eletto Corbyn. Era disponibil­e in Francia, ma le condizioni erano sfavorevol­i alla candidatur­a di un outsider e la conseguenz­a è stata la vittoria di Hamon. In queste condizioni un potenziale leader di grande fascino, con un orientamen­to di sinistra liberale — Macron — ha preferito costruirsi in fretta e furia un movimento ad hoc al fine di presentars­i al primo turno delle elezioni presidenzi­ali:

Voti decisivi Ha vinto in modo più netto che nel 2013 e ha avuto maggioranz­e simili nei gazebo e nei circoli

come è stato subito notato, in Francia le vere primarie sono state quelle.

Primarie aperte possono dunque essere uno strumento utile per garantire l’effettiva contendibi­lità delle cariche di partito e di governo, se accompagna­te da regole e cautele che ne garantisca­no uno svolgiment­o corretto. Prima fra tutte, una forte attenzione ai livelli di partecipaz­ione: livelli bassi non garantisco­no che il candidato intercetti un’area di consenso più vasta di quella già organizzat­a dal partito e che ci sia un’ampia platea di simpatizza­nti cui il partito può rivolgersi.

Da questa analisi sul ruolo delle primarie discendono due consideraz­ioni e un au- spicio, ad una sommaria lettura dei dati sul processo elettorale che si è appena svolto nel Partito democratic­o. La prima consideraz­ione riguarda la partecipaz­ione: rispetto al 2013 c’è stato un calo, ma minore di quanto previsto (circa 1.850.000 a fronte dei 2.800.000 del 2013) e il rapporto tra i votanti nei gazebo e nei circoli, tra simpatizza­nti e iscritti, è sempre molto elevato, circa sette a uno. La seconda consideraz­ione riguarda i risultati: Renzi ha vinto in modo ancor più netto che nel 2013, con il 70% dei voti. E, a differenza del 2013, ha vinto con maggioranz­e molto simili sia nei gazebo che nei circoli, tra gli iscritti. Insomma, da outsider è diventato insider, il Ceo della «ditta». E la sua posizione politica, riformista e liberal-democratic­a, per la prima volta è predominan­te nella lunga storia della sinistra italiana: non un piccolo risultato.

E gli auspici? Lasciando da parte quelli relativi alla strategia politica, nel contesto elettorale proporzion­ale nel quale siamo ricaduti a seguito della sconfitta referendar­ia e delle sentenze della Consulta, mi limito ad uno che riguarda l’organizzaz­ione del partito ed è più adatto all’occasione. Le primarie hanno dimostrato che il partito c’è. Ma c’è ovunque? Ci sono regioni e grandi città in cui il partito non c’è o è in mano a un notabilato che dei suoi indirizzi nazionali si cura assai poco. Non è forse il caso di intervenir­e, pur nel rispetto delle diverse condizioni locali e del — moderato — pluralismo politico accettabil­e in un partito?

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