PERCHÉ UN LEADER RICORRE ALLE PRIMARIE APERTE
Scenario I recenti risultati ottenuti da Matteo Renzi fanno riflettere sull’utilità di questo strumento di votazione che coinvolge anche i non iscritti: l’importante è sempre garantirne un corretto svolgimento
Le primarie sono un aspetto importante della breve storia dell’Ulivo e del Partito democratico e di seguito mi atterrò all’uso di chiamare primarie anche consultazioni che non hanno come obiettivo quello di scegliere il candidato di un partito ad una carica istituzionale: impropriamente sono chiamate primarie anche consultazioni aperte a iscritti (primarie chiuse) e non iscritti (primarie aperte) per scegliere cariche di partito. In particolare il segretario nazionale, com’è appena avvenuto per la seconda volta con Renzi e in precedenza con Bersani e Veltroni.
Faccio così per sottolineare che questo uso improprio del termine è strettamente legato alla crisi della tradizionale democrazia del «partito-associazione», nella quale i soci (gli iscritti) eleggono a maggioranza e a cascata gli organi dirigenti: dai segretari di circolo sino alla direzione nazionale, da questa alla segreteria e da ultimo al segretario.
È un modello di democrazia che funziona male, soprattutto in momenti di incertezza e mutamento: non assicura la prevalenza di una leadership attraente per gli stessi elettori che simpatizzano con le politiche sostenute dal partito e con i suoi orientamenti di fondo. Gli iscritti — i soci — sono pochi, sempre di meno; i simpatizzanti sono potenzialmente assai più numerosi. Gli iscritti sono appassionati di politica, diversi dai simpatizzanti che se ne occupano occasionalmente. Gli iscritti sono spesso eredi di vecchie divisioni culturali, di correnti e fazioni radicate nel passato. Una primaria aperta è prima di tutto un test di popolarità di potenziali leader condotto tra chi simpatizza per un certo orientamento politico generale. (Un piccolo inciso: ovviamente mi riferisco a primarie serie, non a quelle dei Cinque Stelle, dove un candidato è scelto — salvo ripensamento del leader — con poche decine di click a livello
Ragioni della scelta In ogni caso l’uso è legato alla crisi della tradizionale democrazia del partito-associazione
locale e poche migliaia a livello nazionale.)
Un leader convinto di attrarre sulla sua persona e sul suo programma un ampio consenso, che intende richiamarsi al partito e alla sua storia ma sarebbe soccombente nella democrazia del partitoassociazione o in primarie riservate a isoli iscritti, avrà tutto l’ interesse a insistere per primarie aperte.
Nel Partito democratico, l’eredità dell’Ulivo — dove le primarie aperte erano state l’espediente per rendere popolare e condivisa la scelta di Prodi come candidato alla presidenza del Consiglio — e poi lo statuto del partito hanno consentito a Renzi di utilizzarle per la sua ascesa a se- gretario. Questa via non era disponibile in Gran Bretagna dove le primarie erano riservate ai soli iscritti e questi hanno eletto Corbyn. Era disponibile in Francia, ma le condizioni erano sfavorevoli alla candidatura di un outsider e la conseguenza è stata la vittoria di Hamon. In queste condizioni un potenziale leader di grande fascino, con un orientamento di sinistra liberale — Macron — ha preferito costruirsi in fretta e furia un movimento ad hoc al fine di presentarsi al primo turno delle elezioni presidenziali:
Voti decisivi Ha vinto in modo più netto che nel 2013 e ha avuto maggioranze simili nei gazebo e nei circoli
come è stato subito notato, in Francia le vere primarie sono state quelle.
Primarie aperte possono dunque essere uno strumento utile per garantire l’effettiva contendibilità delle cariche di partito e di governo, se accompagnate da regole e cautele che ne garantiscano uno svolgimento corretto. Prima fra tutte, una forte attenzione ai livelli di partecipazione: livelli bassi non garantiscono che il candidato intercetti un’area di consenso più vasta di quella già organizzata dal partito e che ci sia un’ampia platea di simpatizzanti cui il partito può rivolgersi.
Da questa analisi sul ruolo delle primarie discendono due considerazioni e un au- spicio, ad una sommaria lettura dei dati sul processo elettorale che si è appena svolto nel Partito democratico. La prima considerazione riguarda la partecipazione: rispetto al 2013 c’è stato un calo, ma minore di quanto previsto (circa 1.850.000 a fronte dei 2.800.000 del 2013) e il rapporto tra i votanti nei gazebo e nei circoli, tra simpatizzanti e iscritti, è sempre molto elevato, circa sette a uno. La seconda considerazione riguarda i risultati: Renzi ha vinto in modo ancor più netto che nel 2013, con il 70% dei voti. E, a differenza del 2013, ha vinto con maggioranze molto simili sia nei gazebo che nei circoli, tra gli iscritti. Insomma, da outsider è diventato insider, il Ceo della «ditta». E la sua posizione politica, riformista e liberal-democratica, per la prima volta è predominante nella lunga storia della sinistra italiana: non un piccolo risultato.
E gli auspici? Lasciando da parte quelli relativi alla strategia politica, nel contesto elettorale proporzionale nel quale siamo ricaduti a seguito della sconfitta referendaria e delle sentenze della Consulta, mi limito ad uno che riguarda l’organizzazione del partito ed è più adatto all’occasione. Le primarie hanno dimostrato che il partito c’è. Ma c’è ovunque? Ci sono regioni e grandi città in cui il partito non c’è o è in mano a un notabilato che dei suoi indirizzi nazionali si cura assai poco. Non è forse il caso di intervenire, pur nel rispetto delle diverse condizioni locali e del — moderato — pluralismo politico accettabile in un partito?