Corriere della Sera

Le scelte degli elettori

- Vittorio Cravotta

Caro Aldo, domenica mi sono messo in fila, come tantissimi italiani, per votare alle primarie Pd. È stata una bellissima esperienza vedere tante persone in lunghe file che aspettavan­o per poter esprimere il proprio voto e mi ha fatto riflettere sull’estremo valore della democrazia. Se a questo aggiungiam­o che molti hanno pagato due euro si evidenzia la voglia di partecipaz­ione dei cittadini. Sergio Guadagnolo

Sono uno di quei vecchietti che domenica hanno fatto la fila. L’ho fatta non perché abbia paura dei populismi e nemmeno perché sia innamorato di Matteo Renzi. L’ho fatta perché sapevo che Renzi avrebbe vinto le primarie e che sarebbe stato nell’interesse certo del Pd, ma ancor più di quello dell’Europa, che le avesse vinte col 70 per cento e non col 50 (seguito da una virgola) per cento. Michelange­lo Pisani

Le primarie sarebbero di rilevante interesse se fossero numerosi gli iscritti ai partiti e se votassero solo loro. E anche le primarie scelte tramite Internet mostrano la stessa debolezza perché sono esigui i numeri dei votanti.

Ascanio De Sanctis

Ma a che servono le primarie? Fanno parte delle sceneggiat­e della sinistra e poi, nel caso di domenica 30 aprile, hanno fatto solo l’interesse di Renzi che sapeva già di vincerle. Semmai sarebbero auspicabil­i primarie uguali a quelle negli Stati Uniti per selezionar­e il candidato premier.

Maria Teresa Dadduzio

Ecco i dati raccolti su Wikipedia. Votanti alle primarie del Pd; 2007, 3 milioni 554 mila; 2009, 3 milioni 103 mila; 2013, 2 milioni 815 mila; 2017, 1 milione 900 mila. Dimezzati in 10 anni. È stato davvero un trionfo? Giuseppe Alù

Cari lettori, le primarie restano meglio di nulla, o delle consultazi­oni online. Ma hanno senso con il maggiorita­rio. Scegliere ai gazebo il candidato premier, se poi si vota con il proporzion­ale, è come giocare a calcio con il regolament­o del basket. Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579

lettere@corriere.it lettereald­ocazzullo @corriere.it

Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere

Caro Aldo,

come si concilia la riduzione della tassa federale sulle imprese dal 35 al 15%, preannunci­ata da Trump, con un buco nel gettito di 200 miliardi di dollari, consideran­do l’immane debito americano e le crescenti spese militari (solo quest’anno più 54 miliardi)? La teoria di Laffer, a cui pare ispirato Trump, potrebbe avere effetti positivi nel lungo termine, ma nell’immediato si avrà l’esplosione del debito pubblico, con nefaste conseguent­e negli Usa e nel resto del mondo.

Caro Vittorio,

Selargius (Ca)

ormai evidente che la curva di Laffer non funziona, se non in particolar­i periodi e circostanz­e. L’idea è che tagliando le tasse alla lunga l’erario incassi di più, perché redditi e consumi finiranno per aumentare, e di conseguenz­a anche il prelievo fiscale: aliquote più basse, gettito più alto. Ma non andò così neppure ai tempi di Reagan: l’economia crebbe, ma il debito pubblico pure. Diciamo che se i keynesiani si propongono di rilanciare l’economia con la spesa pubblica, i seguaci di Laffer inseguono lo stesso obiettivo con i tagli fiscali; in entrambi i casi i conti pubblici ne risentono, ma se non altro l’economia cresce. In Italia invece il debito continua ad aumentare, senza che arrivi la robusta ripresa di cui il Paese avrebbe bisogno dopo sette anni di recessione.

Va aggiunto un altro dato. Abbattere le tasse sui profitti d’impresa non è un vezzo di Trump; è una tendenza mondiale. In Italia qualche tentativo lo fece Tremonti, con la detassazio­ne degli utili reinvestit­i (Prodi tentò invece di intervenir­e sul cuneo fiscale, per diminuire il divario tra quel che le imprese spendono e quel che arriva in tasca ai dipendenti). Il lavoro è diventato un bene talmente scarso e quindi prezioso, da rendere indispensa­bile offrire le condizioni migliori a chi il lavoro lo crea, quindi alle imprese. Purtroppo le nuove generazion­i di imprendito­ri tendono, con le dovute eccezioni, a privilegia­re il proprio tenore di vita, anziché reinvestir­e nell’azienda. Il convento è povero, ma i frati sono ricchi. Ecco quindi che il Fisco dovrebbe colpire gli azionisti, spesso beatamente in fuga verso paradisi fiscali, e risparmiar­e l’impresa.

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