Le scelte degli elettori
Caro Aldo, domenica mi sono messo in fila, come tantissimi italiani, per votare alle primarie Pd. È stata una bellissima esperienza vedere tante persone in lunghe file che aspettavano per poter esprimere il proprio voto e mi ha fatto riflettere sull’estremo valore della democrazia. Se a questo aggiungiamo che molti hanno pagato due euro si evidenzia la voglia di partecipazione dei cittadini. Sergio Guadagnolo
Sono uno di quei vecchietti che domenica hanno fatto la fila. L’ho fatta non perché abbia paura dei populismi e nemmeno perché sia innamorato di Matteo Renzi. L’ho fatta perché sapevo che Renzi avrebbe vinto le primarie e che sarebbe stato nell’interesse certo del Pd, ma ancor più di quello dell’Europa, che le avesse vinte col 70 per cento e non col 50 (seguito da una virgola) per cento. Michelangelo Pisani
Le primarie sarebbero di rilevante interesse se fossero numerosi gli iscritti ai partiti e se votassero solo loro. E anche le primarie scelte tramite Internet mostrano la stessa debolezza perché sono esigui i numeri dei votanti.
Ascanio De Sanctis
Ma a che servono le primarie? Fanno parte delle sceneggiate della sinistra e poi, nel caso di domenica 30 aprile, hanno fatto solo l’interesse di Renzi che sapeva già di vincerle. Semmai sarebbero auspicabili primarie uguali a quelle negli Stati Uniti per selezionare il candidato premier.
Maria Teresa Dadduzio
Ecco i dati raccolti su Wikipedia. Votanti alle primarie del Pd; 2007, 3 milioni 554 mila; 2009, 3 milioni 103 mila; 2013, 2 milioni 815 mila; 2017, 1 milione 900 mila. Dimezzati in 10 anni. È stato davvero un trionfo? Giuseppe Alù
Cari lettori, le primarie restano meglio di nulla, o delle consultazioni online. Ma hanno senso con il maggioritario. Scegliere ai gazebo il candidato premier, se poi si vota con il proporzionale, è come giocare a calcio con il regolamento del basket. Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579
lettere@corriere.it letterealdocazzullo @corriere.it
Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere
Caro Aldo,
come si concilia la riduzione della tassa federale sulle imprese dal 35 al 15%, preannunciata da Trump, con un buco nel gettito di 200 miliardi di dollari, considerando l’immane debito americano e le crescenti spese militari (solo quest’anno più 54 miliardi)? La teoria di Laffer, a cui pare ispirato Trump, potrebbe avere effetti positivi nel lungo termine, ma nell’immediato si avrà l’esplosione del debito pubblico, con nefaste conseguente negli Usa e nel resto del mondo.
Caro Vittorio,
Selargius (Ca)
ormai evidente che la curva di Laffer non funziona, se non in particolari periodi e circostanze. L’idea è che tagliando le tasse alla lunga l’erario incassi di più, perché redditi e consumi finiranno per aumentare, e di conseguenza anche il prelievo fiscale: aliquote più basse, gettito più alto. Ma non andò così neppure ai tempi di Reagan: l’economia crebbe, ma il debito pubblico pure. Diciamo che se i keynesiani si propongono di rilanciare l’economia con la spesa pubblica, i seguaci di Laffer inseguono lo stesso obiettivo con i tagli fiscali; in entrambi i casi i conti pubblici ne risentono, ma se non altro l’economia cresce. In Italia invece il debito continua ad aumentare, senza che arrivi la robusta ripresa di cui il Paese avrebbe bisogno dopo sette anni di recessione.
Va aggiunto un altro dato. Abbattere le tasse sui profitti d’impresa non è un vezzo di Trump; è una tendenza mondiale. In Italia qualche tentativo lo fece Tremonti, con la detassazione degli utili reinvestiti (Prodi tentò invece di intervenire sul cuneo fiscale, per diminuire il divario tra quel che le imprese spendono e quel che arriva in tasca ai dipendenti). Il lavoro è diventato un bene talmente scarso e quindi prezioso, da rendere indispensabile offrire le condizioni migliori a chi il lavoro lo crea, quindi alle imprese. Purtroppo le nuove generazioni di imprenditori tendono, con le dovute eccezioni, a privilegiare il proprio tenore di vita, anziché reinvestire nell’azienda. Il convento è povero, ma i frati sono ricchi. Ecco quindi che il Fisco dovrebbe colpire gli azionisti, spesso beatamente in fuga verso paradisi fiscali, e risparmiare l’impresa.